giovedì 16 ottobre 2014

19 Ottobre 2014 – XXIX Domenica del Tempo Ordinario

«Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mt 22,15-21).
È chiaro che tutto ciò che ruota intorno al tempio di Gerusalemme, non rientra nelle simpatie di Gesù. I personaggi del culto, gli scribi, i farisei, gli anziani del popolo, se ne approfittano per compiere liberamente i loro loschi affari. Questa élite, più volte pubblicamente redarguita da Gesù, indicata come meno degna dei pubblicani e delle prostitute, lo ritiene ormai come il suo più acerrimo nemico da combattere: Gesù è un uomo pericoloso, uno che deve essere fermato ad ogni costo, poiché non solo non rispetta le istituzioni religiose, ma addirittura le scredita apertamente! Pertanto i farisei si riuniscono per decidere il da farsi: “tennero consiglio per vedere di coglierlo in fallo nei suoi discorsi”. Ormai è guerra aperta. Riescono a coinvolgere nelle loro trame anche gli erodiani, che è tutto dire: i farisei odiavano gli erodiani, li consideravano una feccia schifosa da sterminare; però pur di coronare i loro perversi progetti si abbassano a chiedere la loro collaborazione. Gesù è il nemico comune, e “chiunque odia il mio nemico, diventa mio amico”!
Essi dunque mandano una loro rappresentanza, con un discorsetto già preparato a tavolino: ed iniziano con un elogio esagerato, falso, volutamente adulatorio, un incensamento ostentato: “Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità e non hai soggezione di nessuno perché non guardi in faccia nessuno”. Ma Gesù non si scompone, li conosce molto bene, e con calma si rivolge loro: “Perché mi tentate?”. Li paragona apertamente a satana, il tentatore: usa infatti le stesse parole che ritroviamo nel racconto delle tentazioni. Finiti i convenevoli, scoprono immediatamente le loro carte: vogliono che Gesù si esprima apertamente su un argomento molto spinoso: “Dì a noi: è lecito o no pagare il tributo a Cesare?”. Che praticamente vuol dire: “Devi dirci, qui e ora, ciò che pensi degli invasori romani”. La trappola è ben congegnata, poiché qualunque risposta egli darà, gli si ritorcerà contro; infatti, dicendo “sì”, si dichiara favorevole al pagamento delle tasse, e quindi, riconoscendo l’invasore come “signore” del popolo, incorre nel reato di infedeltà verso Dio, l’unico “Signore” che gli ebrei devono riconoscere e servire (Dt 6,4-13); se invece dice “no” al pagamento delle tasse, si mette automaticamente contro l’autorità romana, decretando personalmente la propria fine, veloce e sicura.
Gesù dunque è incastrato. Se accetta di esprimere un suo parere, ogni risposta è perdente. Deve necessariamente capovolgere la situazione. E lo fa signorilmente: ignora la provocazione e sposta i termini del discorso su un altro piano, facendo a sua volta una richiesta: se essi accettano, egli esprimerà il suo pensiero su quanto gli era stato chiesto: “Mostratemi la moneta del tributo”. Si trattava di una moneta particolare, coniata dai Romani in argento, con incisa l’immagine dell’imperatore e una dicitura che ne decretava la sua “divinità”. Praticamente il simbolo del potere dominante: dove arrivavano quelle monete, lì arrivava il potere di Roma, il dominio dell’imperatore. Gliela mostrano e Gesù: “Di chi è questa immagine e l’iscrizione?”. Gli rispondono: “Di Cesare”. E Lui: “Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. Cosa vuol dire? Prima di tutto che le tasse vanno pagate, certo: le monete di Cesare devono essere restituite al loro padrone. Ma la risposta non si esaurisce qui: “Rendete a Dio quello che è di Dio”. I doveri sono due: uno nei confronti del potere politico, l’altro, molto più profondo e mirato, nei confronti di Dio. In sostanza Gesù non perde l’occasione per richiamare all’ordine i suoi nemici. In pratica, piuttosto risentito, esclama: “Cari farisei, voi che vi date tanto da fare col popolo, voi che siete la classe dirigente del sacro, che vivete all’ombra del tempio, dovete restituire a Dio il popolo che gli appartiene, quel popolo che Lui ha scelto, che Lui ha riscattato, e che ha temporaneamente affidato alla vostra guida. Voi però cercate di impadronirvi di esso, di indurlo in errore con regole false, con le vostre ideologie. Cercate di attirarlo a voi predicando un Dio, che non è il vero Dio. Subordinate Dio alle vostre teorie, al vostro pensiero, ai vostri personali vantaggi e riconoscimenti, e questo è un terribile oltraggio nei suoi confronti: il popolo è suo, vostro dovere è di ricondurlo a Lui”. Parole crude che, come tutto il Vangelo, sono sempre di grande attualità.
Il racconto ci offre pertanto due spunti di meditazione distinti, costituiti dalla domanda e dalla risposta di Gesù. Scendiamo più nel particolare.
Primo spunto, la domanda: “Di chi è quest’immagine?”. L’immagine richiama la persona, esprime ciò che gli appartiene: quella di Cesare stabilisce che la moneta viene da lui e gli appartiene. Ma a noi deve interessare soprattutto un’altra immagine: nella Bibbia infatti sta scritto che l’uomo è stato creato a “immagine e somiglianza di Dio” (Gn 1,26): noi quindi apparteniamo a Lui, siamo sua proprietà. Dimenticare, perdere, trascurare questa nostra autentica e indelebile appartenenza a Dio Vita, significa vivere una non vita, significa cadere in un dramma incalcolabile. Infatti, qualunque nostro attaccamento, qualunque legame ad altre realtà che non siano Dio, a persone, a cose, al mondo intero, svilisce, deturpa la nostra somiglianza divina, ci rende schiavi, dipendenti e prigionieri: non saremo mai completamente liberi, tremendamente liberi, come prima. Dobbiamo pensare più spesso alla nostra somiglianza con Dio. Ci capita mai guardando il cielo stellato, di ammirare la meraviglia di tutti quei punti luminosi, di pensare che è da lì che noi veniamo, di sentirci quasi in comunione con tutte quelle luci, di provare una certa nostalgia di casa, la nostalgia di cose grandi, immense? O siamo morti dentro? Ci capita mai, in certi giorni, di veder riflettere il sole, la luce, nel volto e negli occhi delle persone amate? Ci succede mai di essere pieni, quasi gonfi, di una inspiegabile felicità? Ecco, è in quei momenti che possiamo sentire chiaramente il vero motivo per cui siamo nati, da dove veniamo, chi è la nostra vera madre (la Vita) e chi è il nostre vero padre (l’Altissimo).
Non dimentichiamo mai chi siamo veramente: la più grande tragedia che ci possa capitare è salire sul palco della vita, recitare la nostra parte, e dimenticarci la maschera addosso quando abbiamo finito e usciamo di scena. È importante ripeterci continuamente, nel nostro cuore, nella nostra anima: “Io sono di Dio, appartengo solo a Lui, sono suo figlio, e un giorno tornerò a Lui!”
Secondo spunto, la risposta di Gesù: “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”. Certamente nel dare questa risposta, Gesù alludeva anche all’aspetto politico: “Dai a Cesare, allo Stato, quello che è di Cesare e dello Stato”: è nostro dovere pagare le tasse; non possiamo essere uomini di fede se evadiamo il fisco, se imbrogliamo la gente, se sfruttiamo i nostri dipendenti, se noi accumuliamo, mentre gli altri muoiono di fame, se creiamo lobby di potere. Oggi si fa tanto parlare di comunione negata ai divorziati: di contro, nessuno dei tanti “alti papaveri” della teologia si è mai posto il problema per quelli che “si sono mangiati” i risparmi di una vita di onesti lavoratori, per quelli che fanno fallire le aziende per interessi personali, per quelli che colludono con la mafia a beneficio della propria ascesa al potere, per quelli che si portano a casa milioni di euro in tangenti alla faccia dei contribuenti. Tutta gente che liberamente, pubblicamente e tranquillamente può accostarsi alla comunione.
Ma la risposta di Gesù contiene un’altra verità, altrettanto essenziale, una verità più universale: oltre che a Cesare e a Dio, noi dobbiamo cioè restituire alle persone, alla natura, alle cose che ci circondano, ciò che è loro, che appartiene loro: valore, importanza, dignità. Tutto e tutti hanno le loro qualità: sta a noi riconoscerle, apprezzarle, restituirle: il verbo greco apo-didomi, significa appunto “restituire, rendere a qualcuno ciò che gli spetta, che gli appartiene, che gli è dovuto”. Tra i doni che Dio ci ha concesso in uso, ai quali dobbiamo riconoscere massimo rispetto e cura, ce n’è uno che è il più prezioso in assoluto: la nostra vita! Più gli scienziati studiano l’uomo e più dicono: “Siamo un miracolo!”. Dio ci dona ogni giorno la cosa più grande di questo mondo: il poter dire: “Sono vivo”.
Purtroppo per molte persone è un dono così comune, così scontato, che non lo apprezzano, non sanno che farsene di questa vita e di questo tempo che hanno a disposizione, e continuano a lamentarsi con Dio di questo e di quello. Ma noi dobbiamo riconoscere e onorare questo dono gratuito che è la vita: la vita non ci è “dovuta”, è un dono; e verrà un giorno in cui dovremo riconsegnare nelle sue mani questo dono. Finita questa vita non ne abbiamo un’altra di scorta, in cui poter rimediare al tempo perso. Quello che non facciamo oggi non lo potremo fare mai più.
Viviamola dunque seriamente questa nostra vita, viviamola con intensità, pienamente: disponiamo di questa sola per amare, per provare, per sentire, per realizzare la nostra missione, per diventare ciò che dobbiamo essere: immagine del Padre.
Non lasciamoci condizionare dalla paura di sbagliare, dal giudizio della gente, dell’autorità, da tutte quelle paure che ci impediscono di vivere. Siamo positivi, entusiasti: chiudiamo gli occhi, e nel silenzio ripetiamoci: “Voglio vivere: voglio sentire l’odore dei prati, della natura in fiore, il profumo della pelle di chi amo; voglio provare il gusto del cibo, dei frutti della terra; voglio entusiasmarmi, correre, rotolarmi sull’erba, ridere a crepapelle, giocare, accarezzare e abbracciare; voglio piangere quando sto male, sentire e condividere il dolore della gente, commuovermi per la gioia; voglio inseguire un sogno, lottare per un mondo migliore e sentire che questo mio tempo non sta passando invano, che ha un senso meraviglioso per me e per il mondo. Sì, voglio vivere!”. Se arriveremo a tanto, potremo restituire a Dio questa nostra vita “da vivi”: quando moriremo, saremo ancora in vita. Dio ci ha consegnato la vita, noi gli riconsegneremo la vita, in tutta la sua bellezza: non la morte dei rinunciatari, di coloro che si sono spenti per strada, senza provare, senza sognare, senza combattere.
La gente impreca e si lamenta quando le cose finiscono; ma non sa ringraziare e viverle quando ci sono. Non capisce che all’amore si risponde con l’amore: per amore riceviamo, per amore dobbiamo restituire. Amen.

giovedì 9 ottobre 2014

12 Ottobre 2014 – XXVIII Domenica del Tempo Ordinario

«Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti» (Mt 22,1-14).
Per capire bene cosa vuol dirci il testo evangelico di oggi, dobbiamo tener presente che in genere ogni evangelista, nel descrivere vita e insegnamenti di Gesù, insiste soprattutto in quei particolari “teologici” che egli ritiene più significativi per la propria comunità: ogni comunità, ogni ambiente, viveva infatti il messaggio cristiano in situazioni e con necessità molto diverse tra loro. Questo discorso vale in maniera particolare, per la pagina di Matteo che la liturgia ci propone in questa domenica. La parabola di oggi infatti è una potente allegoria. C’è all’origine un messaggio di Gesù, che Matteo elabora, per trasmettere alla sua comunità un segnale particolarmente chiaro e importante. È la stessa parabola che troviamo anche in Luca (14,16-24), come pure nel vangelo apocrifo di Tommaso, ma decisamente con toni molto diversi, meno accesi e categorici: l’uomo di Luca, per esempio, in Matteo diventa un re (la figura del re richiama il giudizio finale alla fine dei tempi); la grande cena del primo diventa nel secondo un banchetto di nozze per il figlio del re (il Figlio, per Matteo, è Gesù e la grande cena diventa il giudizio per tutti quelli che hanno accolto il suo messaggio); Luca manda un solo servo per invitare le persone, mentre Matteo ne manda molti e a più riprese (più volte Israele ha avuto messaggeri di Dio, ma invano). In Luca gli invitati si giustificano a parole, mentre in Matteo arrivano a malmenare e uccidere i servi del re. A questo punto ci si chiede: perché sottolineare tanta intransigenza? Che senso ha specificare che gli invitati, non solo rifiutano l’invito a nozze, ma picchiano e uccidono addirittura quelli che li invitano? In Luca, visto che i primi invitati rifiutano, il padrone allarga semplicemente il suo invito ad altri; ma in Matteo c’è un’ira terribile del re che, prima ancora di sedere a cena (già pronta!), spedisce la sua guardia del corpo per uccidere quegli assassini e per bruciare la loro città. E ripeto: che senso ha compiere tutto questo immediatamente, prima di cena? Ovviamente nessuno: ma Matteo lo fa, perché vuole riferirsi proprio alla storia di Israele, vuole identificare nei messaggeri del re i profeti e Gesù stesso: loro erano stati mandati da Dio e hanno fatto esattamente quella fine. La punizione doveva essere immediata, prima del ritorno del re nella “sala delle nozze”. Con quali conseguenze? La città degli invitati “assassini”, Gerusalemme, la città simbolo, deve pagare per i misfatti del popolo giudeo: l’allusione alla sua totale distruzione nel 70 d.C. per mano dei Romani, è evidente. La comunità di Matteo, formata appunto da cristiani provenienti dal giudaismo, deve essere consapevole di tutto questo, deve capire il significato profondo, la portata vitale della loro chiamata, della loro adesione al vangelo.
Il pratica il messaggio di Gesù è questo: “Vi ho fatto un invito e voi non l’avete accolto”. Egli è stato rifiutato dai sapienti, dai religiosi, dagli uomini del Tempio, da quelli cioè che già “avevano Dio”, il loro Dio; la loro immagine di Dio, era talmente radicata e fissa, che non sono riusciti a cambiarla. Allora Gesù si è rivolto ad altri: pubblicani, lontani, donne, eretici, senza-Dio, e loro lo hanno accolto.
Non è difficile leggere in questa allegoria, un chiaro messaggio anche per i cristiani di oggi, in particolare per la nostra storia personale.
Anche noi, come gli invitati della parabola, abbiamo sempre una buona, un’ottima giustificazione per rifiutare il messaggio di Dio. “Ho poco tempo; lavoro tutto il giorno; devo stare con i miei figli; mi piacerebbe tanto, ma proprio non posso!; prego già tanto per conto mio!”. Ma la vera domanda da porci è: “Lo vogliamo o non vogliamo questo Dio?”. Perché troppo spesso il “non posso” equivale più semplicemente ad un “non ne ho voglia”.
Il vangelo ci spiega quanto Dio fa per noi. Egli vuole amarci, perdonarci, starci accanto, essere la nostra forza, non farci sentire soli, darci sostegno; in una parola, farci felici: perché allora lo rifiutiamo? È come se uno venisse a dirci: “Ti regalo cento milioni: eccoli, prendili!” e noi che facciamo? li rifiutiamo! Ma perché? Perché siamo orgogliosi, perché pensiamo che sia tutto un inganno (Dio, preti, chiesa ecc.) un falso; e noi non crediamo, non ci fidiamo!
Eppure, quando Gesù parla di Dio, di suo Padre, ne parla apertamente come di un padre misericordioso, dal cuore enorme, e ci riempie di esempi: è come un padre, che se anche suo figlio gli sbatte la porta in faccia, e passa i giorni dissipando la sua vita, tutti i suoi beni, lui comunque rispetta la sua libertà, attende fiducioso e trepidante il suo ritorno, perché lo ama in maniera struggente.
Ma noi non lo vogliamo capire: non vogliamo che Dio ci ami, che sia misericordioso con noi. Preferiamo quasi che sia “cattivo”, che ci tratti male, che ci punisca, che ci tiri pure delle sberle, ma che se ne stia per conto suo; non vogliamo ammettere la sua bontà, perché farlo ci costerebbe troppo, comporterebbe una rivoluzione totale della nostra vita. Vogliamo essere “liberi”, indipendenti, salvo poi, nel momento del bisogno, nelle disgrazie, nelle malattie, essere noi a pretendere da lui un sollecito aiuto, quasi ricattandolo, appellandoci al suo immenso e indiscusso amore.
Dio è veramente amore! Egli ci ama nonostante tutto. Allora perché rifiutarlo? Perché siamo orgogliosi; perché non crediamo alla gratuità del suo amore; perché temiamo ritorsioni; perché nel nostro delirio pensiamo che il suo amore unilaterale non possa essere autentico; perché siamo impastati fin dalla nascita di sospetti, di diffidenza; perché abbiamo innato un modo di vedere le cose completamente sballato. Un esempio? Fin da bambini abbiamo imparato a nostre spese che l’amore si conquista: soltanto eseguendo per bene la volontà di papà e mamma, infatti, il bambino si sente amato. In caso contrario: “Sei cattivo; hai fatto arrabbiare il papà!; non ti voglio più bene...”, e quindi urla, distanze fisiche ed emotive, bronci, ecc. Cosa ci è rimasto di tutto questo? Primo, che sei amato solo se fai quello che vogliono gli altri; secondo, che l’amore è sofferenza: per guadagnarselo occorre faticare, rinunciare ai propri desideri, ai propri progetti di vita. Il bambino poi, ormai adulto, è convinto che questo principio valga anche nei confronti di Dio: il suo amore va conquistato; Dio ama soltanto i meritevoli, quelli che soffrono, faticano, si impegnano, si sacrificano per lui. Troppo difficile! E quando sente le parole del vangelo: “Dio ama gratuitamente tutti, buoni e cattivi, vicini e lontani”, non ci crede: “Non è vero; sono certo del contrario; so per esperienza che ogni amore va meritato: “Ecco, vedi come sono diventato bravo, come sono praticante, come sono perfetto? Ora puoi amarmi!”. Ma non è così. L’amore di Dio non si conquista, non si compra, non ha un prezzo da pagare: è assolutamente gratuito; l’amore di Dio è puro dono.
Accettare allora l’invito di Dio, indossare la veste nuziale, rivestirci degli insegnamenti del vangelo, implica da parte nostra un abbandono totale in Lui, lasciare che lui ci ami teneramente, intensamente, nonostante le nostre schifezze, i nostri errori, il nostro marciume.
Noi abbiamo di Dio un’opinione sbagliata: siamo portati a rappresentarcelo terribile, un nemico, un giudice intransigente: un’idea che la stessa chiesa ci ha trasmesso per anni. Ma dal vangelo risulta esattamente il contrario: Dio è venuto tra noi, si è spogliato della sua divinità, ha indossato la nostra natura umana, e ci ha amati fino a sacrificare la propria vita per noi, per il nostro bene, per la nostra salvezza. E se vuole qualche minima cosa da noi, la vuole esclusivamente per il nostro bene, perché ci ama visceralmente. I suoi inviti a seguirlo sono continue, intense esortazioni d’amore, spesso accorate.
Abbiamo poi sentito che di fronte al rifiuto degli invitati, degli eletti, il re ordina ai suoi ministri di andare per le strade, in ogni angolo, e di chiamare tutti alle nozze, buoni e cattivi, eleganti e straccioni”. Lo fa per amore: vuole tutti con sé, li ama tutti, uno per uno, indistintamente.
Ma allora come mai, quando questo re entra e vede uno sprovvisto di abito nuziale, ha una reazione tanto feroce? Fa legare mani e piedi quel malcapitato e ordina che venga buttato fuori dalla sala del banchetto, nelle tenebre e nel dolore. Ma non aveva convocato anche gli “straccioni”? È il secondo scatto d’ira che Matteo attribuisce a questo re. E lo fa volutamente. Perché, proiettando questa stessa scena negli ultimi tempi, nell’eskaton, Matteo vuol far capire ai suoi, che non è sufficiente essere “chiesa”, appartenere ad una comunità di credenti, trovarsi tra i “chiamati”: ciò non offre alcuna garanzia o diritto di rimanere nel “regno”; l’unica condizione è che tutti devono indossare la “veste nuziale”: perché non indossarla equivale ad aver risposto alla chiamata di Dio solo formalmente, perché così fanno tutti, per interesse, per moda, senza alcun personale riscontro al grande dono d’amore fatto del re: significa avere un cuore arido; significa aver alimentato l’odio, avere l’anima completamente inadeguata all’offerta d’amore del re: in una parola significa non aver indossato “l’uomo nuovo” del vangelo, trascurando la propria conversione.
L’uomo “indegno” del vangelo è purtroppo in buona compagnia: quanti di noi infatti si professano cristiani semplicemente perché battezzati, perché hanno accettato l’invito, ma non si preoccupano di indossare la veste nuziale della coerenza e del servizio! Facciamo bene attenzione, perché un giorno, alla chiamata finale, concluso il “nostro tirocinio”, quando il re ci passerà in rassegna, ogni recriminazione sarà tardiva, fuori tempo massimo: e capiremo da soli quanto siamo stati stolti, quanto siamo stati ottusi nel non ascoltare i tantissimi inviti di Gesù, i tantissimi suoi paterni suggerimenti. Ciò che ci capiterà allora non sarà per caso, non sarà per colpa del “giusto giudice”, ma avremo la logica conseguenza del nostro comportamento. Eravamo tra i chiamati, i fortunati, i privilegiati, ma non è servito a nulla. Noi, e solo noi, abbiamo voluto così. Ognuno ottiene ciò che meritano le sue scelte. Non è Dio che ci punirà; non è Dio che ci butterà fuori dal “regno eterno”: siamo noi che, vivendo rifiutando il vangelo (l’abito nuziale), ci siamo già fin d’ora buttati fuori da Dio. Non per niente Matteo molto amaramente conclude: “molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti”. Amen.

mercoledì 1 ottobre 2014

5 Ottobre 2014 – XXVII Domenica del Tempo Ordinario

«C’era un uomo che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano».
C’è dunque un padrone che decide di investire i suoi capitali in maniera proficua anche per gli abitanti del luogo: “pianta una vigna, la circonda con una siepe, vi scava il frantoio, vi costruisce la torre” e poi l’affida ai vignaioli, a quelli cioè che l’avrebbero coltivata. La cura che il padrone mette nel costruire le infrastrutture ci dimostra quanto egli amasse questo suo terreno, questa sua vigna. Arrivato il tempo della maturazione, egli manda ovviamente “i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto”. E fin qui tutto è nella normalità, tutto secondo le regole e usanze dell’epoca.
Ma poi succede l’imprevisto. Cosa fanno i vignaioli? Hanno una reazione furiosa, furibonda, esplosiva: prendono i servi e “uno lo bastonano, uno lo uccidono, uno lo lapidano”. Come mai tanta violenza? che colpa ne hanno questi “colleghi” anch’essi servi dello stesso padrone? Erano semplicemente degli incaricati, dei rappresentanti, dei messaggeri. Ma è proprio l’essere gli “inviati”, le persone che in quel momento rappresentano il padrone, che fa scattare l’ira nei vignaioli, con un continuo crescendo di violenza, cha va dalle bastonate alla morte.
Ciò che risalta immediatamente in questo susseguirsi di eventi è il comportamento illogico, paradossale, sia dei contadini che del padrone. È assurda la reazione dei vignaioli, perché avrebbero dovuto pensare alla inevitabile replica repressiva del padrone. Ma è assurdo anche il comportamento del padrone che continua impassibile, nonostante la violenza subita dai suoi rappresentanti, ad inviarne continuamente di nuovi, non risparmiando, alla fine, nemmeno il suo stesso figlio. È chiaro comunque che se il comportamento finale del padrone è dettato dalla logica dell’amore: “Avranno rispetto di mio figlio!”, il comportamento dei vignaioli è dettato ancor più dall’ostilità e dall’odio: “Uccidiamolo e avremo noi l’eredità”. Un ragionamento da stupidi, perché non hanno tenuto in alcun conto l’immediata e altrettanto violenta rappresaglia del padre, una volta messo di fronte all’uccisione del figlio.
A questo punto Gesù, ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo presenti, pone una domanda a risposta scontata: “Secondo voi, che cosa farà il padrone della vigna a quei vignaioli”. E loro danno l’unica risposta ovvia: “li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini”, sottoscrivendo così la loro condanna.
Sì, perché è chiaro che il contenuto della parabola riguarda proprio loro, è diretto a Israele e ai suoi capi. A noi i particolari non dicono molto, ma tutti gli ebrei conoscevano perfettamente l’oracolo di Isaia (Is 5,1-7) che dice inequivocabilmente: “La vigna del Signore degli eserciti è la casa di Israele; gli abitanti di Giuda, la sua piantagione preferita”. Israele era infatti l’orgoglio, il popolo preferito, la vigna di Dio. E loro erano fieri di esserlo! Per cui chi doveva capire, ha capito perfettamente: “I sommi sacerdoti e i farisei capirono che parlava di loro” (Mt 21,43). E lo capirono molto bene anche perché il testo della parabola affronta gli stessi temi, usando le stesse parole, anticipati da Isaia: “siepe, frantoio, torre”. La vigna è Israele; il padrone è Dio; i vignaioli sono i capi religiosi; i servi, i profeti. Tutto è chiaro.
Dio (il padrone) ha amato il suo popolo (la vigna) ma questo hai rinnegato il suo amore e i suoi messaggi d’amore (i profeti): Isaia, Geremia, Ezechiele, e tutti i profeti, non sono stati ascoltati. Erano dei messaggeri che richiamavano Israele a convertirsi, a ritornare sulla retta strada, ma non furono ascoltati. Anzi, spesso furono veramente uccisi o lapidati.
E il figlio? Il figlio, è evidente, è Gesù. Dio manda ciò che ha di più caro, di più prezioso: suo figlio. Come a dire: “Più di così, cosa posso fare per voi? Cosa posso dirvi di più perché possiate cambiare?”. Più di così Dio non può niente: Dio le tenta tutte, ma tutto è inutile, quando uno non vuol capire. E sono loro stessi ad autocondannarsi: il padrone “farà morire miseramente quei malvagi e darà ad altri la vigna”. E sarà proprio così: sarà loro tolto il regno di Dio e sarà dato ad altri (ai pagani, alla Chiesa) e la pietra (Gesù) che voi avete scartato, ucciso fuori da Gerusalemme (“fuori dalla vigna”) sarà invece la pietra d’angolo, la pietra su cui poggerà l’intera nuova costruzione.
In pratica cosa ci dice questo vangelo? Che ciò che “non serve”, ciò che ha perso la sua autenticità, la sua “caratura” originale, viene inesorabilmente “scartato”, accantonato, superato. Il popolo d’Israele non è stato fedele a Dio ed è stato “sostituito” dal cristianesimo. Oggi però anche la Chiesa di Cristo sta attraversando un momento difficile, sta gradualmente scomparendo dalle nostre nazioni, dalle nostre città come pure da gran parte del mondo. Possiamo certo attribuire la colpa a fattori esterni (consumismo, individualismo, relativismo, demoralizzazione, ecc.) ma questo non ci giustifica: il vero motivo va invece ricercato al suo interno, nella perdita dei valori cristiani da parte dei cattolici. La storia ci insegna che quando Cristo e il suo Vangelo non è più vitale, significativo, fondamentale per una comunità, questa è destinata nel tempo a scomparire dalla scena religiosa, sociale, culturale. È stato così per Israele, è stato così per molte comunità cristiane dei primi secoli; e sarà così anche per molte comunità cristiane della nostra Europa, che di Cristo hanno conservato solo la radice nel nome.
A questo punto cosa dobbiamo fare? Il padrone fa sempre bene la sua parte: pianta, circonda, scava, costruisce, affida: è la cura, l’interessamento, l’amore di Dio. Gesù ce lo dice chiaramente: “Vi ho guariti, vi ho fatto resuscitare, vi ho sfamati, perdonati, illuminati; vi ho provato quanto perdutamente vi amo; cos’altro dovevo fare?”. E noi? Praticamente continuiamo a comportarci come i vignaioli: “Abbiamo visto i tuoi miracoli, ma i nostri occhi non ti hanno riconosciuto; abbiamo visto la tua vita ma la nostra vita non è cambiata, né si è convertita; abbiamo sentito le tue parole ma il nostro cuore non si è lasciato contagiare; abbiamo sperimentato le tue guarigioni, ma la nostra mente si è chiusa in discussioni teologiche per ucciderti ed eliminarti finché eri sulla terra, perché ci facevi troppa paura. Cos’altro dovevi fare, Gesù? Cos’altro dovevi dimostrare? È chiaro che il problema non sei tu, ma siamo noi, è il nostro cuore!
Noi non vediamo le migliaia di gesti d’amore che le persone ci fanno in tuo nome; non vediamo la bontà che c’è attorno a noi; non apprezziamo chi ci aiuta e ci sostiene; non vediamo la bellezza che ci circonda e che ci illumina ogni mattina quando apriamo gli occhi; non vediamo la vita e l’amore che pulsa attorno a noi e che potrebbe stupire e rallegrare la nostra vita:  ma continuiamo a recriminare, a prendercela con te, lamentandoci per quello che ci manca e che non abbiamo.
Ascoltiamo umilmente i messaggi che ci arrivano dalla vita. Noi infatti possiamo leggere questo vangelo anche in chiave personale: la vigna è la vita, è l’esistenza: ed è una vigna bellissima, meravigliosa! Il padrone, Dio, molto generosamente, ce l’ha concessa gratuitamente in gestione; ci ha detto: “Attento che la vigna, la vita, non è tua. Non essere così stupido da pensare il contrario. È solo un dono. Lavoraci, usala bene, falla fruttificare, e soprattutto godi dei suoi frutti. Ma ricorda: non è tua, è mia”. E poiché di tanto in tanto si accorge che sbandiamo, che “usciamo” di strada, dal seminato, ci manda un preciso messaggio: “Attento, così non va! Se vivi così, muori dentro, rovini le relazioni, lasci morire il tuo cuore, la tua anima, ecc.”. E noi che facciamo? Ce ne infischiamo allegramente dei suoi messaggi e continuiamo a vivere come prima.
Ma Dio non desiste: ci manda un altro messaggio, un altro ancora, e poi tanti altri: gli sta troppo a cuore che la “nostra” vigna sia rigogliosa, non vuole perderla; ma noi ce la ridiamo, ci disinteressiamo, spensieratamente. Fino a quando, ci dice il Vangelo, arriva il momento in cui è troppo tardi: i “vignaioli” si sono talmente rinchiusi nelle loro idee, nella loro presunzione, nella loro cattiveria, da diventare insensibili a tutto; a questo punto nessuno può fare più niente per loro, neppure lo stesso suo Figlio, Gesù.
Quando leggiamo questa parabola ci viene senz’altro spontaneo esclamare: “Ma come hanno fatto quegli idioti a non capire? Come potevano pensare di farla franca, evitando qualunque reazione?”. Ebbene: quei vignaioli che si comportano così apertamente da stolti, da insensati, da sprovveduti, siamo proprio noi.
Dio con noi è sempre buono: ci manda dei messaggi (angelo, in greco significa messaggio), ci manda cioè degli angeli, dei consiglieri, delle guide, dei santi, che ci indicano la via, la condotta da seguire. Dio non ci costringe, non ci forza, non ci toglie la libertà. Ci invita, ma mai ci obbliga. I messaggi di Dio sono come una chiamata al telefono: squilla, ma per sapere cosa vuol dirci chi chiama, dobbiamo alzare il ricevitore! Altrimenti suona a vuoto, per nulla!
La vita è piena di messaggi... dobbiamo semplicemente alzare il ricevitore! Certo non c’è un manuale di decodifica: ogni messaggio è unico, ognuno lo sente in base al suo vissuto. Ma Dio, la Vita, ci parla sempre: ci “in-vita” ogni giorno all’amore, ci istruisce con dei piccoli-grandi annunci. Perciò qualunque cosa ci accada, dobbiamo sempre chiederci: “Cosa mi vuol dire Dio questa volta? Cosa devo ancora imparare?”. In questo modo ogni giornata che passa, diventa per noi una lezione di vita; e finché vivremo, continueremo a formarci, a imparare.
Non c’è maestro più grande della Vita per chi l’ascolta: è solo “vivendo la Vita” che impareremo a vivere. Ma per chi non ascolta, per chi non accetta questa scuola, l’esistenza diventa un peregrinare stupido, insignificante, senza senso e a volte estremamente doloroso. Più che un amico, la vita è un nemico da cui difendersi.
Dobbiamo capire dunque che Dio è sempre presente in ogni momento della vita. Niente succede all’infuori di Lui, a sua insaputa. Lui c’è sempre in ogni fatto che ci riguarda, in ogni evento, in ogni malattia, in ogni situazione. Tutto ci parla di Lui: pertanto, ciò che conta, è rimanere costantemente aperti, attenti, vigili; e se qualcosa non la capiamo subito, non accantoniamola, non dimentichiamola, non buttiamola, ma teniamola lì, in evidenza. A suo modo e a suo tempo anche quel qualcosa ci parlerà. L’importante, ripeto, è assicurare sempre ai nostri angeli la giusta e dovuta attenzione.
C’è una storiella che rende bene l’idea: durante una grande inondazione, l’acqua aveva raggiunto il primo piano di una casa: il proprietario si rifugiò sul tetto. Arrivò la protezione civile su di una barca per portarlo in salvo. Ma l’uomo disse: “Dio mi ha detto: in ogni situazione io ti salverò”. E non ci fu verso di farlo scendere. L’acqua arrivò al tetto e di nuovo la protezione civile venne per prenderlo. “Dio mi salverà”, gridò ancora. L’acqua gli arrivò al collo. Venne nuovamente la barca di salvataggio, ma lui fu irremovibile. La conclusione? Morì affogato. Quando si presentò davanti a Dio, l’uomo indispettito si lamentò a gran voce con Lui: “Ma come! Tu mi avevi detto di non preoccuparmi! Che qualunque cosa mi fosse capitata tu mi avresti salvato: invece eccomi qui!”. E Dio gli rispose: “Amico, io l’ho fatto: ti ho mandato ben tre barche per salvarti!!!”. Chiaro? Non diamo la colpa a Dio della nostra ottusità! Amen.

giovedì 25 settembre 2014

28 Settembre 2014 – XXVI Domenica del Tempo Ordinario

«In verità vi dico: I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. È venuto a voi Giovanni nella via della giustizia e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, pur avendo visto queste cose, non vi siete nemmeno pentiti per credergli» (Mt 21,28-32).
La tensione e la conflittualità tra Gesù e i capi del popolo (scribi, farisei, anziani, sommi sacerdoti) è già altissima. Gesù, scagliandosi contro la loro stupidità e ipocrisia, dirà cose tremende, inaccettabili per gente che faceva parte del sinedrio, che si considerava pura, di buon esempio, pia, religiosa, intoccabile. Tacere, ignorare, soprassedere, non rientra nello stile di Gesù: quello che non va, che non è lecito, deve essere rimosso: solo così si può ricominciare correttamente. È in tale contesto che si situa la parabola di oggi.
Un racconto semplice, ma ricco come al solito di insegnamenti: c'è un padre con due figli ai quali impartisce lo stesso ordine: “Va' a lavorare nella vigna”. Il primo dice: “Sì” ma non ci va. È un figlio ossequioso, educato, e con molto fair play: gli dice subito di sì (mai contraddire il padre, era la regola da seguire); ma poi, come se nulla fosse, fa di testa sua.
Il secondo invece, con stizza, maleducatamente, gli risponde: “No!”; ma poi, ripensandoci, si pente e obbedisce. Matteo usa qui il verbo metamélomai che vuol dire appunto pentirsi, cambiare idea. La sua prima reazione è: “No!”, ma poi cambia idea e ci va.
È chiaro che nessuno dei due ha voglia di andare a lavorare. Ma mentre il primo, attenendosi alle buone maniere per paura di deludere il padre, non è coerente con ciò che pensa realmente in cuor suo - il suo “sì” esteriore equivale ad un “no” interiore - il secondo invece non gli interessa di deludere il padre, è coerente con se stesso, e gli dice senza tanti preamboli quello che di getto gli nasce dentro: “nossignore!”; ma subito dopo la sua coerenza gli fa cambiare idea, capisce che il suo dovere è di rispettare la volontà del padre, e il suo “no” diventa un “sì”.
“Chi dunque ha compiuto la volontà del padre?”, chiede Gesù. E tutti dicono: “L'ultimo”.
E non può che essere così: ma se guardiamo alle parole, alla gentilezza, al comportamento esteriore, dobbiamo riconoscere che il primo merita un plauso, il secondo invece, con i suoi modi diretti, altezzosi, è da condannare senza attenuanti. Ma è subito chiaro quello che Gesù vuol dire con questa parabola: non sono le buone intenzioni, i modi aggraziati, le belle parole, le apparenze esteriori che contano: quello che conta è il risultato, sono i fatti, è quello che si fa nella vita reale di ogni giorno.
Ed è altrettanto chiaro che Gesù intende colpire in maniera esplicita il comportamento dei sommi sacerdoti, degli anziani del popolo, che vendevano soltanto fumo, apparenza, esteriorità, senza alcun riscontro interiore. Di loro infatti aggiunge: “I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio”. Inaudito, sbalorditivo, per quel tempo: sarebbe come se oggi Gesù dicesse ai cardinali, ai vescovi o ai preti: “Le prostitute sono meglio di voi!” (anche se in alcuni casi direbbe la verità!).
Ma Gesù non ce l'ha a priori con i religiosi, con i consacrati, con gli addetti al sacro. Semplicemente non fa sconti a nessuno. Ma perché proprio le prostitute passeranno loro avanti? Non poteva dire gli assassini, i ladri, i delinquenti ecc.? Semplicemente perché qualche giorno prima aveva avuto modo di constatare il pentimento di una di loro. Lo spunto infatti gli viene suggerito dall’episodio, riportato da Luca (Lc 7,36-50), in cui “una di quelle”, una prostituta, lo va a trovare. È chiaro che con la sua vita, con la sua condotta di pubblica peccatrice, lei dimostra di non tenere in alcun conto gli insegnamenti e la persona di Gesù. Eppure Egli vede nel comportamento riservatogli in quell’occasione, un suo chiarissimo “sì” interiore, un’apertura a Dio, un pentimento sincero, una grande decisione di redimersi: sappiamo che Gesù stava mangiando a casa di Simone, un fariseo, uno dei puri per definizione; quando improvvisamente questa donna, apertamente impura, entra e si butta ai piedi di Gesù: li lava con le lacrime e li asciuga con i suoi capelli. Certo, per chi guarda le apparenze, i suoi sono gesti molto accattivanti, sensuali, quasi lascivi: ma la donna usa le arti del suo mestiere per dimostrare pentimento e amore. Quello che poteva apparire sacrilego, un invito a peccare, diventa, nel suo pentimento interiore, nel suo ripensamento, fede e riconoscenza per Gesù. Perché Egli non guarda all'apparenza esteriore; egli guarda “dentro”, guarda il cuore, e le dirà: “La tua fede (=ciò che hai fatto) ti ha salvato”.
Per i puri, gli impeccabili, i religiosi del tempo, la fede era ciò che l'uomo fa per Dio: per Gesù, la fede è ciò che Dio fa per l'uomo. Gesù non vede una prostituta; vede una donna, che ha bisogno d'amore, di accettazione e di perdono. E lui glielo dà. Gesù vede una donna che, come può, ama, ha un cuore che batte ed è viva. E questo gli basta.
Nei farisei e nei religiosi del tempo Egli vedeva molto risentimento, falsità, comportamenti malevoli. Preferisce i pubblicani e le prostitute: non perché approvi ciò che fanno, ma perché questa è gente che faticosamente, con buona volontà, umilmente prova a redimersi. È gente che si butta ai suoi piedi, che piange, che si dispera; gente cioè che non teme di mostrarsi per quello che è, che non si vergogna, non nasconde dietro una bella facciata le proprie miserie, i propri disagi, le proprie ferite. Gente che si accorge di aver sbagliato, gente che cambia vita. Gente dal cuore grande, che arriva a fare follie, perché solo chi ama, solo chi è innamorato può farle.
Sono i gesti dell'amore: folli per chi ha il cuore duro, rigido, insensibile, ma normali gesti di amore, di misericordia, di vita, per chi dice “sì” a Dio.
Un’ultima cosa: abbiamo mai fatto caso che ogni volta che Gesù va in chiesa (in sinagoga) nasce sempre un problema, al punto che - dopo che un giorno, pieno di rabbia, ha buttato tutto all'aria - non ci va più? Perché? Perché il grande pericolo di ogni chiesa, di ogni tempo, ieri come oggi, è quello di trasmettere solo dottrine, catechismi, proposizioni dogmatiche, belle prediche, regole e comportamenti, tralasciando la cosa veramente importante: quella di trasmettere, di far sperimentare, di far vivere, di far sentire Dio nei cuori di ciascuno. Le “regole” si fermano all’esterno: ma lì non c’è vita. Gesù vive e sta là dove c'è vita: dove c'è il dolore, la gioia, dove la gente si commuove, chiede scusa, si mostra per quello che è senza vergognarsi e senza nascondersi, dove la gente non ha un'immagine da sostenere e una maschera da portare. Gesù sta là dove c'è la vita, perché Lui è la Vita, e non può che stare lì. Amen.
 

giovedì 18 settembre 2014

21 Settembre 2014 – XXV Domenica del Tempo Ordinario

«Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?» (Mt 20,1-16).
La parabola del vangelo di oggi ci presenta un proprietario terriero che assume dei braccianti per la sua vigna. In Israele vi erano grandi latifondi e i braccianti erano presi a giornata in base al lavoro da svolgere. Non c’era molto da discutere: pur di assicurare il mantenimento della famiglia, accettavano immediatamente qualsiasi lavoro.
La vigna quel giorno richiedeva un lavoro importante e urgente, tant'è che lo stesso padrone, e non il fattore, esce di casa all'alba per andare in piazza per ingaggiare gli operai. La paga concordata con ciascuno è di un denaro per l’intera giornata: una paga equa, che gli operai accettano volentieri. Ovviamente il numero di operai ingaggiati è sufficiente a soddisfare il fabbisogno dell'intera giornata.
Ma poi succede qualcosa di imprevisto. Verso le nove del mattino il padrone esce di nuovo in cerca di altri operai. Come mai? Perché lo fa? I primi infatti erano già in numero sufficiente; perché allora ne chiama altri? Il padrone non lo fa perché gli servono altre braccia per la vigna, ma perché si rende conto che ci sono ancora molti disoccupati, senza lavoro (“li vide disoccupati”); e lui sapeva che essere senza lavoro equivaleva a non mangiare. Il suo è quindi un gesto di pura bontà: lui non ne ha bisogno, ma loro sì! E a questi operai promette di dare un compenso “giusto”.
Ma non è finita. A metà giornata l'uomo torna nuovamente in piazza e assolda altri operai, e lo stesso fa alle tre del pomeriggio. Di operai nella vigna ora ce ne sono più del necessario, ma il padrone continua a chiamare. È chiaro che egli non è affatto preoccupato per la sua vigna, ma per quei poveretti che sono ancora senza lavoro. Va contro i suoi interessi, eppure lo fa! L'accordo con questi è: “Vi darò quello che è giusto”. Lo stesso succede anche alle cinque del pomeriggio, quando manca appena un’ora al termine della giornata: va in piazza, prende tutti quelli che sono rimasti, e li manda a lavorare. Il padrone continua a dimostrare una grande generosità, è un uomo dal cuore grande, perché non pensa a sé ma a tutta quella gente senza alcuna prospettiva per sfamarsi; e con questi ultimi non parla neppure di retribuzione, ma sarà lui stesso a decidere il quanto.
A fine giornata, giunto il momento della paga, egli inizia partendo proprio dagli ultimi arrivati, e a ciascuno di essi consegna un denaro, lo stesso importo promesso a quelli assunti all’alba: è quindi naturale che questi, fatto velocemente il confronto tra l’ora lavorata dagli ultimi e il loro impegno di un’intera giornata, si aspettino quantomeno una somma tre volte superiore. Quando però tocca a loro, e contro ogni aspettativa vengono retribuiti anch’essi con un denaro (d'altronde avevano accettato queste condizioni), sfogano la loro delusione e il loro malumore accusando il padrone di comportamento ingiusto; e - dice il vangelo - mormorano: non esprimono cioè apertamente il loro disappunto, ma parlano di nascosto, senza esporsi. È tipico di chi, non volendo compromettersi, sostiene le proprie ragioni muovendosi nell’ombra, magari ricorrendo spesso alla calunnia e alla maldicenza.
Gesù non si cura di questi, ma avvicinando il più esagitato, gli dice con grande calma: “Amico, perché urli tanto? Quello che hai ricevuto non corrisponde forse a quanto abbiamo concordato?”. “Sì!”. “Per caso ti ho tolto qualcosa?”: “No!”. “E allora, cosa vuoi da me? Prendi ciò che è tuo e vattene. Non posso fare ciò che voglio con quello che è mio?”.
Ineccepibile, chiuso il discorso. Un comportamento quello del padrone, pur se oggi qualcuno potrebbe definirlo “anti-sindacale”, assolutamente giusto per i primi, e per gli altri generoso, caritatevole, misericordioso. Egli non toglie nulla a nessuno: vuole soltanto dare a tutti lo stesso salario. Un comportamento da “padrone buono”, spiega Gesù: identico a quello tenuto da Dio, suo Padre.
Dio infatti non dà in base al merito, ma secondo le nostre necessità: egli non dispensa il suo aiuto amoroso come se fosse un premio dovuto, ma lo offre gratuitamente a tutti: egli infatti vuole soddisfare quel bisogno di felicità che ogni uomo porta innato nel suo cuore. Dio quindi non fa preferenze, ma ama tutti indistintamente.
Gesù, con questa parabola, vuole dimostrare proprio questo: e lo fa cogliendo l’occasione offertagli da Pietro che,interpretando il pensiero anche degli altri, gli dice esplicitamente: “Noi per seguirti abbiamo abbandonato tutto, casa, lavoro, famiglia; cosa ci darai in cambio?” (cfr. Mt 19,27).
Pietro ragiona secondo la mentalità del tempo: Dio premia i giusti e castiga i cattivi. Essi sono “giusti” (hanno seguito Gesù senza alcun indugio), e quindi egli rivendica per sé e per gli altri un trattamento di favore: “siamo sempre con te, ti seguiamo ovunque, facciamo molto più degli altri: cosa ci riserverai allora più di loro?”. Gesù però non ha mai pronunciato alcuna parola che potesse anche solo far pensare a cose di questo genere. Ha detto invece: “Il Padre vostro che è nei cieli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, fa piovere sui giusti e sugli ingiusti”; e ancora: “Mio Padre ama tutti, buoni e cattivi”.
Quindi nessuna pretesa per chi lo segue, per chi lavora per lui nella sua vigna, di ottenere particolari riconoscimenti: e questo indistintamente sia che lo faccia dalla prima ora che dall’ultima: del resto l’amore che Dio riserva a tutti i suoi lavoratori, supera di gran lunga qualunque aspettativa: li soddisfa a tal punto da escludere in essi l’insorgere di qualsiasi altro desiderio.
Una parabola, quella di oggi, che contiene pertanto due messaggi, entrambi forti e chiari.
Il primo ci dice che “stare” con Gesù, “accompagnarlo”, non vuol dire necessariamente “seguirlo”. Gli apostoli per esempio durante la vita pubblica di Gesù, lo accompagnavano, stavano sempre con lui, ma non lo “seguivano”. “Seguire” infatti è capire, far penetrare nel proprio cuore, amare il suo messaggio. Per seguire Gesù non basta avere un comportamento esteriore ineccepibile: è il comportamento interiore, è il nostro cuore che deve adeguarsi ai consigli evangelici. L’esterno semmai è solo il riflesso di una autentica conversione interiore.
Si racconta in proposito di un santo abate che guidava diverse centinaia di monaci, sparsi nei vari monasteri da lui fondati; un giorno gli chiesero quanti fossero in totale i suoi monaci, ed egli rispose: “Quattro o cinque al massimo!”. Troppa gente purtroppo “accompagna” semplicemente Gesù”: va in chiesa, prega, gli rivolge inni e orazioni, ma non lo “segue”: non è imbevuta cioè del suo vangelo, non segue con il cuore i suoi insegnamenti. A fine giornata si presentano come instancabili lavoratori, assidui frequentatori del sacro, ma è come se non avessero mai lavorato: in realtà non hanno mai sopportato alcun disagio nella loro sequela, fosse pure quella dell’ultima ora; la loro aspettativa di premio è pertanto doppiamente improponibile: se paga buona ci sarà, dipenderà unicamente dalla generosità del Padre, non certo dalle loro presunzioni.
Il secondo messaggio, altrettanto fondamentale, conferma e chiarisce il primo: Dio ama tutti, sia coloro che lo “seguono” dal mattino della vita, che quelli che rispondono alla chiamata della sera. I primi non devono aspettarsi un trattamento preferenziale: non è la durata o la difficoltà del servizio che aumenta i meriti: “Voi che mi seguite, non siete migliori degli altri”. Dio cioè non premia secondo i nostri calcoli, per la nostra bravura, per la nostra obbedienza o coerenza. La ricompensa finale del suo amore eterno è destinata, in ugual misura, a tutti i “lavoratori”: sia della prima che dell’ultima ora. C’è un’unica condizione essenziale per accedere alla ricompensa: essere “lavoratori” di “qualità”, non di “quantità”.
È un principio che ho sottolineato più volte, in quanto per noi è molto indigesto. “Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri”, scriveva Orwell; ed è una grande verità: è in pratica quello che pensiamo anche noi “battezzati”: Dio ama tutti, è vero; ma sicuramente i “segnati” li ama più degli altri. Niente di più falso: le parole di Gesù non permettono fraintendimenti: “I pubblicani (i peccatori) e le prostitute, vi passano davanti nel regno di Dio” (Mt 21,31). Accettiamola umilmente questa verità. Invece anche oggi tanti cristiani, pii e religiosi, non sanno capacitarsi: “non è giusto – dicono - che chi si converte sul letto di morte, all’ultimo momento, dopo una vita passata nel peccato, riceva lo stesso nostro trattamento; non è giusto cioè che anche lui possa andare in paradiso come noi che abbiamo “faticato” tutta la nostra sacrosanta vita!”
Purtroppo è la nostra radicata mentalità meritocratica che ci porta a pensare così: “Io ho pregato tanto, io sono sempre andato in chiesa, io ho fatto questo, io ho fatto quello: è impossibile che Dio non mi ami più di quanti non hanno fatto nulla!” No, Dio non ti ama “di più”. Dio ti ama, punto. E come te ama anche tutti gli altri. Pensare diversamente significa essere schiavi dell’invidia, significa provare per gli altri soltanto del rancore.
Ed è anche su questo aspetto che Gesù, con questo messaggio, vuol metterci in guardia: “Sei anche tu invidioso perché io sono buono con tutti?”. Già, l’invidia: non è un paradosso il suo, non allude ad una situazione inverosimile. Non capita forse proprio a noi di “prendercela” a male, di offenderci ogni volta che qualcuno “sceglie” un altro al posto nostro? Non capita a noi di arrabbiarci perché altri sono più fortunati di noi? Di “legarcela al dito” perché qualcuno ha invitato altri e non noi ad un evento cui tenevamo molto? E in questi casi, non capita puntualmente proprio a noi di pensare: “È veramente un ingrato: come ha fatto a non tener conto di tutto quello che io ho fatto per lui?”.
Ecco, anche noi siamo invidiosi: e lo siamo perché, come i bambini, pretendiamo di essere sempre i primi, i preferiti, gli unici. L’invidia, con tutto il suo malessere, nasce quando, confrontandoci con gli altri, constatiamo che qualcuno è migliore di noi. A questo punto il nostro comportamento è triplice: o lo abbassiamo al nostro livello, ricorrendo magari anche alla calunnia, alla maldicenza, pur di “smontare” la sua superiorità; oppure cerchiamo di alzare noi stessi: facciamo cioè l’impossibile per raggiungere, almeno in apparenza, lo stesso livello dell’altro. Non importa poi se lo siamo realmente, l’importante è che gli altri ci vedano così. Quante persone infatti buttano la vita per rincorrere modelli di vita impossibili, pur di sentirsi ammirati, di passare per qualcuno “che conta”? Purtroppo non arriveranno mai all’assoluto, perché nella loro ansia di primeggiare, troveranno sempre qualcuno o qualcosa con cui continuare a confrontarsi. Il nostro terzo comportamento è infine quello di fare buon viso a cattiva sorte, di fare cioè i disinvolti, ostentando all’esterno un disinteresse, un distacco che non abbiamo; praticamente fingiamo con noi stessi, perché sotto sotto sappiamo di non poter competere, di non avere alcuna chance. Riviviamo in qualche modo la famosa storiella della volpe e dell'uva.
Quello che conta, invece, è che noi siamo una realtà unica: noi siamo noi e nessun altro. Ogni volta che vogliamo essere come gli altri, decretiamo il nostro fallimento: significa che ci consideriamo un nulla, che non abbiamo alcun valore. Dimentichiamo che l’essere noi stessi è il nostro più grande valore. Non dobbiamo confrontarci con nessuno: perché se lo facciamo ci sarà sempre un vincente e un perdente, un superiore e un inferiore, e questo creerà tensioni. Noi siamo noi: sviluppiamo quello che siamo; valorizziamo le nostre doti, le nostre risorse, i nostri talenti. Più saremo impegnati in questo, meno tempo avremo per guardare fuori di noi, per fare confronti con quello che sono gli altri. Chi è felice di sé non prova invidia per nessuno. Noi siamo amati. Le persone ci amano, Dio ci ama: non perdiamo tempo a quantificare se di più o di meno degli altri. Siamo amati e questo ci basti! Ringraziamo piuttosto e benediciamo Dio; gioiamo e riempiamoci il cuore di questa certezza. Che significato ha continuare a prendercela con Dio se la nostra vita non è come vorremmo? Se non è “di più” di quella degli altri? O forse siamo invidiosi perché pensiamo che Lui ami gli altri più di noi?
Un bambino, sulle scale di casa, giocava a “fare il prete” insieme ad un suo amichetto. Tutto andò bene finché l’amico, stufo di fare il chierichetto, salì su di un gradino più in alto e cominciò a predicare. Il bambino naturalmente lo rimproverò bruscamente: “Solo io posso predicare, tocca a me, perché io sono il prete”. Allora l'amico più piccolo gli disse. “Ma io sono il vescovo, e predico perché sono su un gradino più alto del tuo!”. L’altro lo guardò, fece silenzio e decretò: “Va bene, tu sei il vescovo e puoi predicare; ma ricordati che io sono Dio!”.
Se ci riduciamo a pensare che la vita sia soltanto una questione di scale, passeremo tutto il nostro tempo a sgomitare continuamente sui gradini, cercando di salire sempre più in alto degli altri: ma le scale della vita non sono infinite; prima o poi ci accorgeremo della nostra stupidità; ci accorgeremo di aver sprecato tutto il tempo per raggiungere posizioni precarie sempre più ambiziose, rinunciando a godere dei doni veri, delle bellezze meravigliose e dell’amore profondo che Dio ci ha messo a disposizione gratuitamente in questa nostra vita. Amen.

giovedì 11 settembre 2014

14 Settembre 2014 – Esaltazione della S. Croce

«Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,13-17).
Giovanni, con poche ma incisive parole, ci spiega il grande mistero di Dio: Dio è venuto nel mondo per amarci, per accoglierci, per starci vicino, per farci vedere come potremmo vivere, con quale estensione del nostro cuore, con quale dilatazione della nostra anima, con quale vibrazione e intensità per la nostra vita.
Il testo di oggi è tratto dal lungo discorso che Gesù intrattiene con Nicodemo. Nicodemo è un fariseo, fa parte dell’aristocrazia sacerdotale, è un maestro, un profondo conoscitore della Bibbia e della religione. Ma gli manca qualcosa, avverte una profonda inquietudine, percepisce che c’è qualcosa di più grande, di oltre. È un uomo che non si accontenta, che vuole capire, che vuole vivere più in profondità. E Gesù gli fa una proposta immensa, a prima vista irrealizzabile: “Devi rinascere”.
Sostanzialmente gli dice: “Quello che tu oggi chiami vita, io la chiamo morte. Abbandona questo tuo modo di vivere, di pensare: ed io ti mostrerò cosa vuol dire vivere per davvero”. Una proposta che avrebbe emozionato chiunque, che avrebbe entusiasmato, stuzzicato chiunque avesse un cuore assetato di verità, di amore, di vita vera come il suo.
Gesù è uno che fa proposte nuove, proposte che rompono tutti gli schemi, le convenzioni e le abitudini. Gesù apre orizzonti nuovi e impensati. Gesù è davvero affascinante, attraente, perché presenta un modo di vivere estremo, meraviglioso, da “mozzare il fiato”, intenso. Gesù è per anime grandi. Gesù non si concilia con chi ama il quieto vivere, il tran-tran quotidiano, il piccolo cabotaggio: guardiamo per esempio la vita dei santi o degli apostoli. Chi vuol vivere sulla difensiva, senza rischiare troppo, è meglio che lasci stare. Perché Gesù coinvolge, sconvolge, esattamente come l’amore: prende tutto, possiede, afferra. Gesù è il fuoco: se non bruciamo per Lui, non lo conosceremo mai. Gesù è come l’acqua: o ci immergiamo in Lui o non lo conosceremo mai. Gesù è come la vita: o la viviamo con Lui o rimarremo sempre a bordo strada.
A Nicodemo in pratica dice: “Se vuoi capire chi sono io, lascia stare la tua Legge, le tue regole, le tue norme, la tua morale. Devi rinascere. Devi far morire il tuo mondo di illusioni, di falsità, di apparenza, di vuoto, di buone maniere, e riaprire gli occhi alla realtà”.
E cita come esempio la piaga dei serpenti velenosi inflitta da Dio al popolo che durante l’esodo gli si era ribellato: chiunque fosse stato morso, avrebbe potuto guarire guardando il serpente bronzeo posto da Mosè alla sommità di un’asta: il serpente segno di pericolo, di morte, di disperazione, di rovina, diventa in quel momento segno di vita. Esattamente come la croce, segno di paura, di morte, di terrore, di fallimento, di sofferenza: con Cristo diventa segno di vita. Questo in pratica Gesù ci invita a fare: “Non aver paura di quello che ti angoscia: fidati di me: attraverso la croce ti ho riscattato!”.
Gesù si è fidato di Dio, è andato fino in fondo e può quindi testimoniarlo personalmente: Dio non abbandona mai. Egli ha guardato in faccia tutte le sue paure: la morte, il fallimento, la fine, la croce, l’aver sbagliato tutto. Bisognava che affrontasse tutto questo, che andasse fino in fondo nella sua vita, ad ogni costo, anche salendo sulla croce, per dimostrare a tutti noi che Dio non abbandona; che di Dio ci possiamo fidare; che di Dio non dobbiamo aver paura; che l’amore di Dio è più forte di tutte le morti.
Guardiamo allora in faccia tutto ciò che temiamo! La paura più grande è la paura di morire. “Guardala in faccia. Non sottrarti”. Guardare in faccia la tragedia della nostra vita è la nostra salvezza o la nostra disperazione. La grande verità è che noi moriremo. Dovremo lasciare le persone che amiamo di più, i nostri figli, i nostri cari, la nostra casa. Vivere con tale prospettiva ci fa paura, ci rende scettici, pessimisti: “A che serve fare, combattere, lasciarsi coinvolgere, se poi tutto finisce?”. Vivere così ci aliena: “Meglio non pensarci, altrimenti impazziamo!”. Vivere così ci rende insensibili, vuoti: “Godiamoci la vita, accumuliamo benessere, prendiamoci tutto quello che possiamo!”. Però qualunque cosa tentiamo di fare, una verità ci informa puntualmente: “tu morirai, lascerai tutto e tutti”. Possiamo scappare da questa verità. Possiamo vivere come se niente fosse. Evitarla, non pensarci. Ma la paura della morte ci impedisce comunque di vivere, ci fa male; è un pensiero tremendo, doloroso, lacerante, angosciante.
Ma questa non è la fine in assoluto: dall’altro lato del tunnel buio c’è sempre una luce. Nel fondo dell’angoscia brilla la Vita. Nel fondo della morte risplende la Resurrezione. Nel fondo della paura c’è la Fiducia. Se ci fidiamo di andare fino in fondo, di affrontare le tragedie della vita, della nostra vita, ebbene, proprio lì, troveremo il senso e la bellezza della vita stessa. E, dopo di ciò, non saremo mai più quelli di prima. Non saremo mai più gli stessi.
Ecco: questo, per Giovanni, vuol dire “credere”. Credere è quando noi nel bel mezzo del buio troviamo la Luce; nel bel mezzo della morte troviamo la Vita; nel bel mezzo della disperazione troviamo la Forza. Credere è quando noi non ci sottraiamo alla vita e alle sue tragedie, ma ci passiamo dentro, in mezzo, le affrontiamo, fidandoci di Dio. Questa discesa ci fa rinascere, ci rende nuovi, ci cambia completamente vita. Perché guardare in faccia ciò che temiamo, ci fa nascere in una nuova visione della realtà.
Se noi smettessimo di voler “razionalizzare” ogni cosa, di voler cercare sempre risposte convincenti, di voler trovare il filo conduttore di tutto, di pensare e ripensare, di discutere, di concettualizzare tutto, di stabilire sempre cosa è bene e cosa è male, e ci aprissimo, invece, al nostro profondo bisogno d’amore, alla ricchezza delle emozioni che vivono nel nostro cuore, senza reprimere, senza eliminare, senza paura di affrontare la dipendenza, la rabbia, ma guardandole in faccia. Se useremo, contro le nostre paure ed emozioni angosciose, tenerezza, comprensione, misericordia, allora inizieremo veramente a sentirci degni di vivere sul serio; allora ci sentiremo veramente figli di Dio. Allora capiremo che ai suoi occhi noi siamo grandi (siamo stati creati da Lui); è Lui che ci vuole grandi, e anche noi finalmente ci sentiremo tali.
Questa è la realtà: e per questo dobbiamo smettere di inseguire ideali di vita distruttivi: le ricchezze, il buon nome, la carriera, il successo, il nostro apparire esteriore. Non possiamo continuare a vivere così; guardiamoci invece negli occhi, scrutiamoci nel silenzio dell’anima; prendiamoci l’un l’altro per mano e diciamoci le nostre paure, i nostri bisogni, i nostri desideri e tutto il nostro bisogno di amore; guardiamo i volti delle persone e ammiriamone la misteriosa bellezza che celano; guardiamo il cielo, sentiamolo “dentro” di noi; guardiamo gli uccelli e sentiamoci liberi come loro nella nostra anima; guardiamo il sole e viviamolo nel nostro cuore; facciamo anche solo silenzio, e sentiremo che c’è qualcosa che ci accomuna con gli altri, che ci rende fratelli: solo così noi potremo sentire, vivere e percepire il meraviglioso, inebriante e stupendo fremito che si chiama vita. Chi crede, vive così. Chi vive, crede così. Amen.
 

giovedì 4 settembre 2014

7 Settembre 2014 – XXIII Domenica del Tempo Ordinario

«Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello…» (Mt 18,15-20).
La catechesi del vangelo di oggi - tratta dal “ discorso ecclesiale”, uno dei cinque grandi discorsi di cui si compone il vangelo di Matteo - intende trasmettere alla nascente comunità cristiana di allora delle regole ben precise, delle norme, dei consigli, con i quali tradurre in pratica, in comportamenti di vita, la grande novità della predicazione di Gesù. Parole che ovviamente noi oggi non dobbiamo prendere alla lettera, poiché sono state scritte per uomini di oltre duemila anni fa, che vivevano in un determinato ambiente, in una determinata cultura molto diversa dalla nostra.
L’importante infatti per noi non è tanto rimanere fedeli a delle “regole” contingenti che mutano nel tempo, ma di fare nostro lo spirito di Gesù, che è quello che rimane fermo nei secoli.
Cosa ci rivela allora “lo spirito”, il senso profondo del testo di oggi? Che dobbiamo riservare agli altri un comportamento di umiltà, di sollecitudine, di attenzione, di discrezione. Il fatto che Dio sia presente in noi, che abiti nel nostro cuore, non lo dimostriamo certo attraverso una grande quantità di preghiere o dal numero di volte che invochiamo il suo nome, ma da come ci relazioniamo, da come ci comportiamo con le persone, da come stiamo con gli altri.
Così anche quando litighiamo, quando lottiamo, quando entriamo in conflitto con il nostro prossimo, non dobbiamo mai dimenticare, soprattutto in quei momenti, che il nostro dovere è quello di amare: può succedere infatti che, pur non litigando mai con nessuno, non arriviamo ad amare nessuno, oppure che, litigando continuamente, lo facciamo per amore. Tutto dipende se riusciamo ad imparare dalle nostre esperienze, se facciamo tesoro di quanto esse ci insegnao. Quante persone litigano per anni e anni sempre per lo stesso futile motivo? Vuol dire che non hanno mai imparato dalla loro esperienza, non si sono mai domandati il perché del loro comportamento: non hanno capito cioè che insistere nel loro litigare non serve, è inutile, fa solo male a loro e agli altri; non vogliono imparare, non vogliono crescere. La loro è una lotta tra sordi.
Il comportamento che dobbiamo pertanto ricavare dalle parole del vangelo, non è tanto quello della denuncia, del creare uno scandalo a tutti i costi, dello stendere in piazza i panni sporchi del fratello, bensì quello della carità, dell’amore, del rispetto che gli dobbiamo: perché se nostro fratello sbaglia, se ha dei problemi, è esattamente in questi momenti che ha maggior bisogno di noi, del nostro amore, della nostra amicizia: è soprattutto in questi frangenti che dobbiamo usargli ancor più delicatezza, gentilezza, attenzione, rispetto.
Questo infatti ci raccomandano le prime parole del testo: “Se c’è una questione irrisolta fra te e lui... va di persona da lui, incontralo da solo, a quattrocchi”. Quindi è d’obbligo la massima discrezione: un atteggiamento completamente nuovo, rivoluzionario, rispetto all’antica legge israelitica che al contrario imponeva l’obbligo del ricorso immediato alla pubblica denuncia.
Pertanto: c’è qualcosa che non condividiamo nel comportamento di qualcuno? Notiamo in lui qualcosa di stonato, qualcosa che riteniamo sconveniente, deplorevole? Andiamo da lui e parliamone: se non altro andandoci, ascolteremo la sua versione, le ragioni del suo agire, e forse ci ricrederemo; forse capiremo che le cose non stanno poi come noi pensavamo. Andiamo e constatiamo sempre di persona: non prendiamo mai per buono quello che dice la gente. Non comportiamoci in maniera infantile: non isoliamo, non scherniamo, non mettiamo alla berlina, non crocifiggiamo nessuno a priori. Spesso i comportamenti che noi condanniamo sono imposti da situazioni, o da cause di forza maggiore, che noi neppure immaginiamo. Dobbiamo tener presente, inoltre, che molto spesso le persone agiscono per paura, per fragilità, per ignoranza e non per cattiveria.
Pertanto, dobbiamo soprattutto imparare ad “ascoltare” il prossimo. Dobbiamo dargli credito, dobbiamo dargli fiducia. Per ben quattro volte Matteo insiste sul verbo “ascoltare”: “Se ti ascolterà... se non ti ascolterà vai con una, due persone... se non ti ascolterà, dillo all’assemblea..., se non ti ascolterà...”. L’ascolto, il colloquio, il chiarire fraternamente e privatamente qualunque malinteso con i fratelli, sono le basi per un corretto relazionarsi, sono le vie maestre della “carità” cristiana: perché la calunnia, la diffamazione, lo screditare subdolamente gli altri, dire male del prossimo, sono azioni di chiara provenienza satanica: solo Satana infatti male-dice, soltanto lui è una male-dizione per il mondo intero; al contrario mettere in luce il bene, incoraggiare, valorizzare, vedere sempre in positivo, dire bene del prossimo sono cose che vengono da Dio: egli infatti bene-dice tutti.
Per questo dobbiamo fare molta attenzione alle parole che escono dalla nostra bocca: perché esse rivelano sempre ciò che segretamente coltiviamo nel nostro cuore: se il nostro cuore è pieno di rabbia, di invidia, di risentimento, di dolore, dalla nostra bocca non potranno uscire che pregiudizi, maldicenze, insinuazioni. Se il nostro cuore invece è pieno di Dio, dalla nostra bocca non potrà uscire altro che espressioni di perdono, di misericordia, di carità, di amore.
Saper “ascoltare” i fratelli, assume quindi un’importanza fondamentale. Ma nella realtà, nelle nostre giornate passate con gli altri, come lo “viviamo” questo ascoltare? Ascoltiamo veramente o fingiamo di ascoltare? Ascoltiamo quello che gli altri ci dicono, oppure ascoltiamo soltanto ciò che vogliamo sentire? Riusciamo ad ascoltare le motivazioni dell’altro anche se dentro di noi abbiamo già deciso che ha sbagliato? Riusciamo ad ascoltare l’altro anche se noi per principio non cambiamo mai parere, se non vogliamo mai accettare punti di vista diversi dai nostri? Oppure lo ascoltiamo se mentre lui parla noi stiamo già pensando a come contraddirlo? Se abbiamo sempre le risposte pronte per tutte le domande, credendoci altrettanti Dio? Se siamo più preoccupati di cosa dirà la gente piuttosto che di lui e di quanto deve dirci?
Certo, tutto questo non è ascoltare: e se noi non ascoltiamo gli altri, come facciamo a dire loro che li amiamo?
La comunità di Matteo non era perfetta: c’erano sicuramente dei conflitti, delle incomprensioni, delle liti tra i vari componenti. Per questo egli qui sente il bisogno di ribadire: “In tutte le situazioni, ci sia fra di voi l’amore”.
Del resto non esiste comunità, non esiste famiglia, in cui non vi siano tensioni, conflitti, scontri: la normalità sta proprio nella con-flittualità: si hanno pareri diversi, discordanti, si hanno esperienze diverse, ci sono problemi, crisi, difficoltà diverse. Ma non sempre litigare, entrare in conflitto, equivale a non amarsi: vuol dire soltanto che c’è diversità di vedute, di opinioni, che ci sono caratteri con sensibilità magari opposte, nient’altro. È un fatto naturale e inevitabile, che comunque non deve essere considerato un problema. Semmai il problema c’è quando due persone non litigano mai: vuol dire che una delle due si è conformata all’altra, si è spogliata della propria personalità. E non è certo arrivando a tanto che dimostriamo di amare veramente: ma l’amore in una famiglia, in una comunità, traspare solo dal modo con cui vengono affrontati e risolti questi conflitti, queste divergenze.
Il “modo” è un fattore determinante e decisivo: perché le tensioni e i conflitti sono ambivalenti: possono cioè essere causa di comunione ma anche di divisione, di unione o di rottura, di crescita o di separazione. Se infatti partiamo dal presupposto che in casa nostra deve sempre regnare l’armonia e la pace, se evitiamo d’autorità l’insorgere di qualunque parere contrario, è difficile, per non dire impossibile, crescere.
Ci sono infatti persone che pretendono di vedere sempre tutto roseo intorno a loro: persone che negano nella loro convivenza l’esistenza di qualunque conflittualità, pensano insomma che la loro comunità sia esente da qualunque problema… e questo è già di per sé un notevole problema! Altre persone invece sono così fragili, hanno un’identità così debole, che vedono in un semplice contrasto, in una salutare litigata, la fine stessa di un rapporto, un disastro universale, la prospettiva tragica di rimanere completamente sole. Ma entrambe le posizioni non rappresentano la normalità della vita.
Non spaventiamoci allora delle divergenze, delle lotte, dei conflitti. Semplicemente parliamone con gli altri, discutiamone; accettiamo di essere messi in discussione. Non è importante chi alla fine vince, anche se lo scopo primo di ogni nostro intervento e sempre quello di aver ragione. È naturale per noi essere portati a dominare l’altro, a dimostrare che noi siamo “più” in tutto, che abbiamo sempre ragione: questo è vero. Ma stiamo bene attenti: perché dove c’è uno che vince, c’è sempre uno che perde, ed è altrettanto naturale che chi perde si senta umiliato, sconfitto, messo all’angolo: e questo non è mai positivo, non produce mai aggregazione, unione.
Per questo è fondamentale, lo ripeto, ascoltarci: mettiamoci nei panni degli altri, mettiamoci dal loro punto di vista, usiamo nei loro confronti grande em-patia, grande sim-patia; spogliamoci delle nostre manie, perché se rimaniamo in esse non arriveremo mai ad ascoltare nessuno.
La maturità del nostro amore non si vede dal fatto che non creiamo mai screzi, che facciamo tutto insieme con il nostro partner; ma dal confrontarci in maniera sana nei momenti difficili. È il confronto che ci fa crescere, che matura il nostro amore.
Di conseguenza è altrettanto fondamentale imparare a difenderci quando ci attaccano, a mettere dei paletti quando oltrepassano il limite, ma anche imparare ad aprirci totalmente quando è possibile e quando troviamo fiducia; imparare a collaborare senza voler essere superiori agli altri, come pure ad esprimere quello che abbiamo dentro senza sentirci inferiori a nessuno.
Non c’è una scuola per tutto questo. C’è una scuola per tutto, ma non per imparare a convivere. E così le coppie scoppiano (stare in due è già gruppo), le famiglie vivono malesseri profondi, e le persone che hanno amicizie vere, forti e profonde, sono sempre meno.
Matteo per questo ci propone una frase bellissima di Gesù: “Se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà”. Notare il “mettersi d’accordo: “ac-cor-darsi”, vuol dire in pratica avere i cuori che battono tutti alla stessa frequenza; in greco è sin-fonia. L’accordo musicale infatti è formato da note diverse: ogni nota ha un suono diverso, ma messe insieme formano l’ac-cordo, la bellezza di una sinfonia. L’unità è quindi l’accordarsi, è cantare all’unisono con la stessa melodia, è quando i nostri cuori sono uniti, quando le nostre entità si fondono nell’intimità, nel segreto della nostra vita. E quando ciò avviene, ci dice il vangelo, sperimentiamo la presenza di una forza irresistibile, sperimentiamo tangibilmente la presenza di Dio in mezzo a noi.
L’unione di due persone non sta tanto nello sposarsi, nel quanto tempo stanno insieme, nel quante cose fanno insieme, ma nella profondità del loro stare insieme.
Di alcuni santi si dice che durante il loro parlare intimo, il loro colloquiare profondo con l’altro, giunsero ad una unione talmente con-sonante, da perdere completamente la cognizione del tempo: pensiamo per esempio a san Benedetto con santa Scolastica, a san Francesco con santa Chiara. Come mai noi nel nostro continuo parlare difficilmente creiamo unione? Semplice: perché noi non sperimentiamo la forza intima dell’amore, perché i nostri cuori non vibrano mai in profondità. Parlare del più e del meno, di quello che si è fatto in giornata, parlare del tempo, del vicino di casa, del lavoro, non crea unione, non ci guarisce, non ci sana, non ci fa incontrare dentro. Ciò che ci rende uniti, che ci salva, è quando ci offriamo all’altro completamente, in maniera totale e disarmante, nella nostra vulnerabilità, nelle nostre paure, nelle nostre imperfezioni. L’unione nasce infatti dal “metterci a nudo”, dal farci vedere per quello che siamo realmente, dal donarci vicendevolmente l’anima. Dobbiamo avere il coraggio di farlo e la fiducia di non essere traditi.
Si racconta di un giovane monaco che chiedeva all’abate: “Per quanto tempo dovrò aver cura di mio fratello?”. E l’abate rispose con quattro domande: “Quanto tempo ci vuole per fare una casa?”. Il discepolo rispose: “Un anno”. “Quanto tempo ci vuole per fare un albero?”. “Cinque anni”. “Quanto tempo ci vuole per poter fare un figlio?”. “Almeno quindici anni”. “E quanto tempo ci vuole per distruggere tutto questo?”. “Un attimo!”. “Ebbene: ci vuole tanto tempo per costruire, ma basta un attimo per distruggere. Fa in modo che questo attimo non avvenga mai tra te e tuo fratello”.
Quando parliamo, quando ci relazioniamo con gli altri, teniamo sempre presente questa regola e stiamo attenti a quell’attimo, in particolare a quello che diciamo; perché le parole possono essere come delle bombe: una volta innescate, scoppiano in un attimo. Amen.