giovedì 14 maggio 2015

17 Maggio 2015 – Ascensione del Signore

«Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti…» (Mc 16, 15-20).
Oggi la chiesa celebra la festa dell’Ascensione, la salita di Gesù in cielo. Marco ce ne fa una descrizione molto particolareggiata. Sarà successo tutto come lui racconta? No! La sua non è una cronaca, ma una descrizione teologica (oltretutto queste righe sono un’aggiunta successiva al vangelo di Marco). In pratica il testo qui vuol dire: “Io me ne vado, non ci sarò più; ma rimarrete voi. Io non parlo più, non opero più, ma continuerò a farlo attraverso voi. Voi siete le mie labbra, le mie mani, i miei piedi, i miei occhi e il mio cuore. Io sarò ancora materialmente presente in questo mondo grazie a voi”.
Quindi l’ultima raccomandazione: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura». Per ben due volte il testo usa il verbo andare e per due volte predicare; l’invito è seguito dal suo compimento: Allora essi partirono e predicarono dappertutto (16,15.20). Un compito che nessuno in futuro dovrà mai dimenticare.
Chi c’era prima che andava dappertutto? Chi era prima il maestro e predicatore? Gesù, ovviamente. Ma adesso Lui non c’è più e manda i suoi discepoli. Loro sono i nuovi Gesù. E attenzione: “In tutto il mondo... ad ogni creatura... dappertutto”: il vangelo (eu-anghelion = buona/bella notizia) è per tutti.
Cos’aveva fatto Gesù? Mentre i religiosi ebrei discriminavano e dicevano: “Questi sì e quelli no; questi sono buoni e quelli cattivi; questi sono degni e quelli no; questi in paradiso perché puri, quelli all’inferno perché impuri (donne, peccatori, pubblicani, pastori, pescatori, lebbrosi, ammalati, usurai, ecc.)”, Gesù invece diceva: “Io vado da tutti. Io non guardo in faccia nessuno, non guardo la carta d’identità, la bellezza, la simpatia; io guardo il cuore. Ho un messaggio da proporre al tuo cuore, un messaggio di luce, di vita, d’amore, di riconciliazione, di pace, di verità. E vengo da te. Se lo accogli, bene; se non lo accogli vado da un’altra parte. Ma Dio è per te e per tutti”. E proprio per questo Gesù dice: “Andate da tutti, dappertutto, da ogni creatura”.
Una volta si interpretavano queste parole dicendo: “Bisogna convertire il mondo. Bisogna rendere cristiani tutti gli abitanti del mondo. Bisogna battezzare tutti”. Ma Gesù non voleva fare né proseliti, né servi. Gesù voleva solo portare a tutti il vangelo, il suo annuncio di salvezza. Voleva dire: “Guarda, Dio è dentro di te; tiralo fuori, fallo vivere, esprimilo. Non hai neppure idea che forza, che potenza, che energia tu abbia dentro di te. Tu sei già di Dio, sei “divino”: io non vengo per importi qualcosa ma solo per convincerti a guardarti dentro, ad esprimerti, a renderti conto di ciò che tu, senza saperlo, già sei; a convincerti che se tu vuoi, puoi dimostrare a tutti quello che sei realmente”. Chi gli credeva, guariva dalle malattie del corpo (ciechi, zoppi, lebbrosi, ecc.), guariva dalle malattie della vita (depressione, attaccamento, paura di ogni cosa, indifferenza, voglia di morire), guariva dall’aridità del cuore, dalla freddezza e dalla rigidità interna. Alcuni di questi credenti erano così “presi”, così entusiasti, così “toccati” da questa nuova prospettiva, che lasciavano tutto (casa, famiglia, moglie, figli, lavoro, giudizio della gente) e lo seguivano. Erano così cambiati, da chiamare “vita vera, vita autentica” perfino la morte corporale.
Quindi non si tratta tanto di “andare” a convertire il mondo intero, ma di “proclamare il vangelo”, di far capire che il Dio del vangelo è veramente il Dio di tutti, di quelli che credono e di quelli che non credono, di quelli vicini e di quelli lontani, dei buoni e dei non buoni, dei giusti e dei non giusti.
In particolare, cosa vogliono dire queste parole? Che Dio è di tutti: soprattutto lo è già di tutti. Non si tratta di mettere dentro al loro cuore un qualcosa di nuovo; al contrario di tirar fuori qualcosa che già hanno dentro! Dio è la possibilità di un incontro, di un’esperienza che tutti possiamo fare con lui, perché egli vive già, dormiente, in ciascuno di noi.
Nessuno ha l’esclusiva di Dio. Dio non appartiene a nessuno: non è né mio né tuo. Non è neppure della Chiesa cattolica: semmai è la chiesa cattolica che appartiene a Dio, non Dio alla Chiesa. Nessuno può dire: “Io conosco già tutto di Dio, e questo mi basta”; al contrario: “Io voglio vivere fino in fondo tutto quello che conosco di Dio”.
La catechesi, la predicazione, non devono aggiungere niente di nuovo; devono soltanto far emergere, far risvegliare, far risplendere quel Dio che nella sua grandezza, nella sua potenza, nel suo amore infinito, vive già in ogni creatura umana.
Tutti abbiamo Dio in dono (siamo di Dio!). Ma tutti lo abbiamo in maniera “diversa”, con particolari personalissimi carismi: “Tu hai la tua esperienza di Dio; io la mia. Non devi darmi ad ogni costo la tua; aiutami soltanto a trovare la mia”. Dio non è una formula, né una preghiera, né una pagina di catechesi: Dio è una presenza. Educare a Dio vuol dire mettere gli altri in collegamento, in relazione, col Dio che già vive in loro. Altrimenti non facciamo “annuncio”, ma “costrizione”, vogliamo cioè imporre soltanto la nostra idea, la nostra immagine di Dio (piena tra l’altro delle nostre proiezioni), senza pensare che così facendo allontaniamo la gente dal loro Dio.
Noi siamo i nuovi Gesù. Lui non c’è più, ora ci siamo noi. Gesù ha vissuto un tempo storico, circa trentatre anni, ventun secoli fa. Poi se ne è andato. Adesso ci siamo noi, tocca a noi continuare la sua opera.
Il vangelo è chiaro: “Essi (cioè noi) partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano” (16,20).
Sono le ultimissime parole del vangelo di Marco: la storia di Gesù finisce qui; da questo momento inizia quella della chiesa, inizia la “nostra” storia. Ma Lui comunque c’è sempre, Lui vive in noi, vive attraverso le nostre mani, i nostri piedi e le nostre labbra. Lui “opera” con noi, attraverso di noi. In pratica è Lui che “conferma” quello di buono che facciamo.
“Operando insieme” (16,20) in greco è “sinerguntos”, da “sin-ergo”: collaborare, cooperare, essere coadiutore, socio, collega: praticamente agiamo in “sinergia”, noi siamo il telaio, le ruote, il volante; Lui è il motore, la potenza, la forza motrice, la nostra energheia.
Eppure, quante volte diciamo: “Ma tu Signore, di fronte a tutto ciò che mi succede, non fai proprio niente? Perché non intervieni direttamente come facevi una volta? Perché non fai qualcosa? Perché non sistemi le cose?”, e ci arrabbiamo, non ci rendiamo conto che ora siamo noi che dobbiamo metterci in gioco per primi, siamo noi che dobbiamo cercare una soluzione: non possiamo pretendere sempre la soluzione già pronta, il risultato finale già in tasca. C’è in atto una stretta cooperazione: Lui fa sempre la sua parte; ma noi? Lui ci ispira, ci da il coraggio, la forza, la costanza di insistere, la “rassegnazione” finale se qualcosa non riesce come noi vorremmo. Tutto nella nostra vita ha un perché, una motivazione, una spiegazione: spetta a noi semplicemente trovarla e capirla.
Con l’Ascensione Dio non agisce più direttamente, in prima persona: lo fa solo attraverso di noi.
Purtroppo il nostro cristianesimo è ancora troppo bambino: chiediamo tutto a Dio: che faccia questo, che ci tolga il dolore, che ci cambi la vita, che cambi il mondo e gli altri, che ci mandi il miracolo o quello che ci serve. Siamo come i bambini che chiedono, chiedono, chiedono sempre e tutto alla mamma e al papà. I piccoli, è vero, hanno bisogno di ricevere il biberon e la pappa pronta. Ma noi siamo grandi e il nostro cristianesimo, la nostra fede, devono essere adulti.
Dio non c’è più, non è più materialmente qui per fare al nostro posto le cose che dobbiamo fare noi. È asceso in cielo. Dio, in questo mondo, non interviene più, non scende più. Non possiamo più appellarci a Lui. Ma attenzione, Dio c’è ancora, eccome! È Lui la forza che c’è in noi, la fiducia e la vita che abitano in noi; a Lui possiamo ricorrere, da Lui possiamo attingere la grazia a piene mani. Da questo punto di vista, dunque, Lui è sempre con noi; interviene e lavora sempre, ma solo con noi, (sin-energia), attraverso noi.
“Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato” (16,15).
Per Gesù “salvezza” è vivere alla luce del vangelo, avere cioè una vita vibrante, appassionata, una vita che esprime gioia, in cui l’amore fluisce e scorre, la tristezza e il pianto escono, la voglia di cantare e di vivere si sprigionano, una vita in cui poter andare con la fede oltre noi stessi, in cui, insomma, poterci sentire vivi, realizzati, accolti.
In questo infatti consiste il nostro “credere”: infiammarci quando incontriamo Dio, bruciare di vita nuova sentendolo vicino. Prima eravamo freddi, di ghiaccio, morti; con la fede ci riscaldiamo, ci sciogliamo e diventiamo terribilmente vivi, infuocati.
Il vangelo, a questo proposito, enumera anche i segni che distingueranno coloro che credono (16,17). Quando leggiamo la vita dei Santi ci viene spontaneo dire: “Che uomini straordinari! Come hanno fatto a fare tutto quello che hanno fatto?”. E rimaniamo stupiti, meravigliati; li consideriamo degli uomini “superiori”, dei super eroi. La verità invece è un’altra: non sono loro ad aver vissuto da supereroi, ma siamo noi che viviamo al di sotto delle nostre possibilità. Quello che hanno fatto loro, è esattamente quello che noi, se vogliamo, possiamo fare.
E vediamo allora questi segni rivelatori: prima di tutto saper “scacciare i demoni”. Nel vangelo i demoni parlano e hanno voce. Nella nostra vita c’è tutto un vociare, un ammasso di programmi, di discorsi, di prediche, di schemi inutili; un peso superfluo che ci appesantisce, che ci impedisce di volare in alto, che ci uccide d’inedia, che ci fa morire di sovrappeso. Ebbene noi possiamo scacciare tutti questi demoni, queste voci, questi schemi: possiamo liberarci di tutta questa zavorra che non ci conduce a Dio, ma lontano da lui. Gli schemi, le parole, sono solo schemi e parole: si possono cambiare, sostituire, eliminare.
“Parlare lingue nuove”. Abbiamo mai ascoltato i nostri discorsi? Di cosa parla la gente? Del tempo, di ciò che ha fatto il vicino, il collega, il capoufficio, dell’ultimo gossip; e poi tante “chiacchiere” inutili, insinuazioni, discorsi vuoti, spersonalizzati, senza un’anima. La gente, parlando, crede di comunicare, di esprimersi; ma non fa altro che moltiplicare linguaggi! Quali sono allora le lingue nuove di cui si parla qui? Semplice: è il linguaggio del silenzio, il grande linguaggio del frenare la lingua, chiudere la bocca e ascoltare: “Sto in silenzio e ti ascolto. Ascolto le parole della tua anima, del tuo cuore. Ascolto la natura, il canto degli uccelli, ascolto il mio e il tuo cuore che batte, il mio e il tuo respiro vitale.
È il linguaggio degli occhi: fermiamoci e guardiamoci negli occhi. Perché gli occhi sono lo specchio dell’anima. È il linguaggio del cuore: parlarsi intimamente, esprimere le proprie emozioni, le proprie paure, i propri bisogni, i propri desideri. È il linguaggio dell’anima: piangere di gioia, commuoversi, stupirsi, meravigliarsi, essere felici. Le persone neppure immaginano quale vibrazione, quanta vita, quanta energia, quanta forza, diano quelle parole, che non sono “parole”, ma effusioni dell’anima.
Altro segno che caratterizza l’uomo di fede è “Prendere in mano i serpenti”. Il serpente è pericoloso, a volte mortale. Quante volte evitiamo cose e persone perché ci sembrano viscide, sfuggenti come serpenti: ci fanno ribrezzo, paura, pensiamo di non farcela ad affrontarle; sono situazioni troppo impegnative per noi, troppo pericolose, troppo insidiose. Ma la nostra è solo paura. “Con me puoi tutto”, dice il Signore. “Prendi in mano ciò che ti fa paura!”. Prendiamo in mano i nostri serpenti: non crediamo più in niente, non andiamo più in chiesa, ci siamo stancati di sentire sempre le stesse prediche, i preti non ci trasmettono più nulla? Esaminiamo il problema! Non abbiamo più fiducia né stima per i nostri colleghi, i nostri vicini, i nostri parenti, i nostri amici, non li sopportiamo più, la loro presenza ci arreca fastidio? Fermiamoci: affrontiamo la questione, prendiamo in mano il serpente, analizziamo la nostra fede, la nostra carità, la nostra coerenza. Svegliamoci dal nostro torpore, scuotiamoci dalle nostre paure; chiediamo a Lui nuova forza, nuovo vigore, nuovo entusiasmo. Perché tiriamo avanti fingendo che tutto vada bene? Non permettiamo che il serpente si nasconda, strisciando nella nostra vita. Pensiamo che un nostro richiamo, un nostro rimprovero, una nostra ramanzina nei confronti di qualcuno sia utile e necessaria? Facciamola! Cosa aspettiamo? “Ma non so come reagirà! Ho paura che se la prenda a male, temo che intervenire sia peggio!”. Le nostre sono solo scuse, delle bugie belle e buone! Se abbiamo fede, se ci comportiamo come ha fatto Gesù, se usiamo la Sua carità, il Suo amore, troveremo sicuramente la forza, il modo giusto e indolore per rendere inoffensivi i nostri serpenti! Lui è sempre con noi, lo sappiamo: e con Lui possiamo affrontare tutto.
È vero: l’uomo Gesù se n’è andato da questa terrà, è asceso in cielo, ha raggiunto il Padre; ma ora qui ci siamo noi. E in noi, sue membra, scorre la sua stessa forza vitale, il suo stesso Spirito. Quello che Lui, il Figlio di Dio, ha umanamente fatto, noi lo possiamo ripetere. Se siamo convinti di questo, se la nostra fede è tale da smuovere le montagne, niente ci sarà impossibile. Gesù stesso lo ha detto: “Chi crede in me compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi perché io vado al Padre” (Gv 14,12). Meditiamo e preghiamo. Amen.

 

giovedì 7 maggio 2015

10 Maggio 2015 – VI Domenica di Pasqua

«Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore» (Gv 15,9-17).
Dio ci ama gratuitamente, illimitatamente, al di là di tutto. Lui non ci chiede di essere puri, giusti, buoni; Lui ci chiede solo di accoglierlo e di lasciarci amare.
Il suo è un amore gratuito, un amore immeritato: è l’amore di Dio.
L’amore degli uomini è invece condizionato, interessato. Le persone ci amano ma pongono dei limiti al loro amore: “Se vai oltre un certo limite, io non ti amerò più”. Possiamo accettare per una volta il tradimento di un amico, di una persona cara, ma se dovesse persistere gli diciamo: “Ora basta!” e tronchiamo l’amicizia.
Possiamo accettare per una volta dall’amico, dal fratello, un attacco diretto, forse anche un comportamento violento; ma se la cosa dovesse continuare, ci vediamo costretti a dirgli: “Ti voglio bene ma non posso più stare con te”, e ce ne andiamo per la nostra strada.
L’amore degli uomini rispetta determinate condizioni; e tutti gli uomini le rispettano.
Ma l’amore di Dio no; l’amore di Dio non ha limiti; per questo abbiamo con Lui un debito di riconoscenza fin dall'inizio: volendolo ricambiare partiamo tutti svantaggiati, perché egli ci amati da sempre, prima ancora che nascessimo; e lo ha fatto in un modo che noi non potremmo mai imitare.
Egli ci ha amati e ci ama di un amore libero, incondizionato, gratuito.
Però se nulla possiamo fare per il passato, altrettanto non possiamo dire per il presente e per il futuro: dobbiamo pertanto impegnarci a riversare sugli altri, sul prossimo, un amore almeno “simile” a quello con cui lui da sempre ci ama. Siamo da lui amati senza meriti, senza aspettative e senza pretese? Cerchiamo di fare altrettanto anche noi! “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8).
Un amore unico, quello di Dio: l’amore di un Dio che viene per servirci, che viene gratuitamente per noi, di sua spontanea volontà. Se riusciamo a capire l’importanza e la portata dell’essere amati da Dio in questo modo, è impossibile non amare anche noi gratuitamente, senza pregiudizi e senza pretese.
Poi Gesù dice: “Se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio amore…” (Gv 15,10).
Quando noi sentiamo parlare di “comandamenti” pensiamo automaticamente ai Dieci Comandamenti. Ma in Giovanni non troviamo nessuna lista di comandamenti di Gesù.
E nei vangeli, se Gesù invita a qualcosa, non è a seguire i Dieci Comandamenti ma, casomai, le otto Beatitudini.
Così quando sentiamo parlare di “comandamento dell’amore”, il nostro pensiero corre immediatamente alle parole: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. E pensiamo che Gesù volesse identificarlo proprio in questo. Ma non è così. Questa era la spiegazione data dalla spiritualità ebraica, dai primi cristiani provenienti dall’ebraismo, ma non Gesù; per loro oltretutto era un comandamento abbastanza ovvio, in quanto, per un ebreo, il “prossimo” non erano tutti gli “altri”, ma solo gli altri ebrei. Gesù lo spiega più avanti cosa intende per comandamento dell’amore: “Amatevi come io vi ho amati” (Gv 15,12) e il riferimento è la lavanda dei piedi. Essere al servizio di tutti, con amore e umiltà!
Inoltre Gesù dice: “Vi do un comandamento nuovo (kainèn)”. Ora, nuovo in greco si può dire in due modi: neòs se usato in senso numerico (mi hanno regalato una penna nuova; ora ne ho due); oppure kainòs se usato in senso qualitativo, cioè “un’altra cosa!” (mi hanno regalato dei libri, un regalo completamente nuovo rispetto ai giocattoli di  prima); la novità sta sull'altro livello del dono, un dono di tutt’altra qualità.
Nel nostro caso, gli ebrei avevano già i Dieci Comandamenti e Gesù non ne dà un undicesimo (neòs). Avevano già 613 regole da seguire, bastavano quelle, erano più che sufficienti! Gesù non aggiunge un’altra regola, ma in pratica le riduce ad una; Egli dà un’unica regola, ma totalmente nuova (kainòs); un comandamento che è tutta un’altra cosa, un comandamento che sta su un altro piano, che soppianta tutti quelli che c’erano prima. Gesù dice semplicemente di amare, ma di un amore nuovo, un amore che produce gioia: “Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15,11). Non a caso la parola “amore” (charis) deriva proprio dalla radice charà = gioia, festa, godere.
Questa è la novità importante, fondamentale, che lo rende unico: l’amore, per essere come quello di Dio, deve produrre gioia, allegria, felicità; se il nostro amore non produce questi sentimenti in noi e nelle persone che “diciamo” di amare, allora dobbiamo porci seriamente delle domande, dobbiamo analizzarci in profondità. L’essere nella gioia, non vuol dire provare quella gioia che sentiamo quando tutto ci va bene, quando siamo fortunati. La gioia dell’amore è quel sentimento profondo, intimo, rassicurante, che ci tranquillizza, che ci fa sentire al nostro posto, che ci fa sentire amati, che ci assicura sulla bontà dei nostri progetti, sulla strada che stiamo percorrendo, che ci fa capire che siamo qui, in questo mondo, per qualcosa di veramente importante, che ci crea una sensazione di vitalità, di gioia interiore, di libertà.
Si può amare il Signore ed essere sempre seri, tristi, contriti, irreprensibili? Se noi non dimostriamo mai i segni della gioia, dell’amore, che sono appunto il sorriso, la serenità, la generosità, la pace, ecc., dobbiamo cominciare a preoccuparci seriamente sull’autenticità del nostro amare Dio! Forse, tutto sommato, non siamo troppo convinti che Dio ci ama. Dio è gioia! È amore vero! Se diciamo di amarlo, perché viviamo dimostrando all'esterno il contrario?
Poi Gesù, continuando la sua lezione sull’amore, dice: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13).
Questa affermazione è stata in passato ed è ancora oggi, decisamente distorta, incompresa. Un’iperbole difficilmente attuabile: il “dare la vita”, è interpretato come “morire” per gli altri: in altre parole uno per amare veramente gli altri, deve rinunciare alla propria vita, deve sacrificarsi fino alla fine ultima, deve rinunciare alla propria esistenza materiale; per cui il darsi agli altri, in mancanza della morte, è un darsi non evangelico, non in linea con l’amore di Gesù che ha sacrificato la sua vita sulla croce per amore nostro; è un darsi incompleto, un darsi limitato, un vivere in maniera incompleta il “comandamento” di Gesù.
Ma non è questo il significato: Dio non ci impone eroismi, non vuole che rinunciamo al grande dono della vita che lui stesso ci ha dato: lo richiede solo a poche persone, ai santi, in particolari casi e in particolari situazioni. La nostra santità passa attraverso gli eroismi della normalità. Attraverso un donare quella “vita” che coincide con il nostro essere spirituale.
Il vangelo di Giovanni è chiaro: quando egli scrive dare la vita, non usa le parole “zoé” che indica la vita che è in noi, per mezzo della quale viviamo (qua vivimus), oppure “bios” che allude al modo in cui noi viviamo (quam vivimus); usa invece il termine “psyché”, che nella lingua greca del Nuovo Testamento significa "anima,respiro, soffio vitale”.
È dunque questa la vita che dobbiamo dare ai nostri amici: è la nostra anima, ciò che abbiamo dentro, quello che siamo nel nostro intimo, il nostro essere spirituale. Dare la vita materiale, quella esteriore, non serve. Neppure quando parliamo di figli. Il dono più grande per un figlio non è assicurargli una vita al top: non sono i soldi, né il cognome famoso, né i beni, né un’adeguata posizione sociale; il vero dono è mettergli a disposizione totale tutto ciò che noi siamo e abbiamo dentro, la nostra parte più vera, più profonda, è dargli la nostra anima, il nostro amore, i nostri slanci, le nostre convinzioni, i nostri ideali.
Se noi, da parte nostra,non abbiamo nessuna vitalità, nessun entusiasmo, nessun ideale, nessun valore radicato in noi; se non abbiamo nessuna sicurezza, nessuna fede, nessuna apertura, che tipo di “vita” potremo mai “sacrificare”, quale “vita” potremo mai donare ai nostri cari e agli altri?
Spesso marito e moglie stanno insieme per anni: si sono donati corpo, tempo, ore, cose preziose, ma mai la loro “vita”; pur vivendo sotto lo stesso tetto per anni, sono rimasti sempre degli estranei. Tra i due non c’è complicità spirituale, non si fanno dono vicendevole della loro psyché, non si scambiano l’anima, il loro sentire più intimo e riservato, la loro essenza spirituale; non arrivano e mettere a nudo la loro fragilità, la loro vulnerabilità, le loro paure, i loro sogni segreti. Non c’è complicità interiore. Ecco perché prima o poi le coppie inesorabilmente scoppiano: non perché non si amano più, ma perché non sanno amarsi in questo modo. Non conoscono l’essenza del vero amore, l’amore con cui Dio li ama entrambi, e non sanno condividere e convivere questo amore. “Stanno insieme” perché fanno tante cose in comune, abitano nella stessa casa, hanno gli stessi interessi: ma se tra loro non c’è questa simbiosi interiore, non c’è questo incontro, questa fusione di anime, il loro non è “psychéin”, non è “dare la propria vita per l’altro”, non è “vivere insieme un’unica vita”, non è la “fusione dell’essere”, il respirare insieme, il sentire insieme, il pensare all’unisono. In altre parole le coppie scoppiano, perché il loro amore non arriva ad essere come quello “più grande” in assoluto, quello descritto nel vangelo di oggi.
Purtroppo la regola è la stessa per tutti: la vita passa inesorabilmente. Sta a noi scegliere come volerla far passare: la lasciamo semplicemente scorrere alla deriva senza alcuna direzione? Oppure vogliamo imprimerle un qualcosa di significativo, di valido, di “eterno”?
 “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga”. Il mandato ricevuto è chiaro e inequivocabile. I mezzi per attuarlo, altrettanto. Pensiamoci. Amen.

giovedì 30 aprile 2015

3 Maggio 2015 – V Domenica di Pasqua

«Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla» (Gv 15,1-8).
Il brano del vangelo di oggi è tratto da quel lungo discorso di addio, che Gesù ha rivolto ai suoi prima di morire (Cfr. Gv 13-27). In quel contesto Gesù apre completamente il suo cuore ai discepoli, manifestando loro, con grande amore, i suoi sentimenti più profondi: egli parla di sé, di loro, di ciò che lo preoccupa, di ciò che li aspetterà in futuro, dell’amore e dell’odio che incontreranno nel mondo. E per spiegare in maniera più comprensibile chi è lui, il suo ruolo, la sua leadership, ricorre all’immagine della vigna.
Tale simbolismo era molto conosciuto ai tempi di Gesù. Nell’Antico Testamento, per esempio, Israele, il popolo eletto, era la vigna di Dio. Nel Cantico dei Cantici la sposa invita lo sposo nella vigna, ritenuta per antonomasia il luogo dell’amore, dell’estasi, della felicità, della gioia sessuale.
Il vino, prodotto nella vigna, era quindi per gli antichi il simbolo dell’appagamento, dell’ebbrezza, dell’intensità, del piacere della vita. Quando a Cana manca il vino, la festa sembra finire; ma dopo che Gesù vi ha posto rimedio, assicurando vino a volontà per tutti, i festeggiamenti, i canti e le danze, riprendono a pieno ritmo. Un particolare che vuol sottolineare come la gioia, l’allegria, il benessere dipenda dal vino, ossia da quella vitalità, da quell’entusiasmo, da quella linfa vitale che scorre dentro di noi. Se questo vino viene a mancare, in altre parole, se perdiamo il contatto con il nostro intimo, con la profondità delle nostre radici, con la nostra Vigna, nessuna gioia è più possibile.
Il rapporto che gli apostoli e i primi cristiani intrattengono con Gesù è infatti questo: Lui è la vigna, loro sono i tralci. Il tralcio è indipendente, è diverso dalla vigna. Il tralcio non è la vigna. Ma il tralcio è unito alla vigna, è la sua propaggine: e solo se rimane unito alla vigna può portare frutto; altrimenti, se reciso, se staccato da lei, si seccherà e verrà bruciato. La vigna è la forza per il tralcio, è il suo nutrimento, la sua vita, il suo tutto. Vigna e tralcio sono un tutt’uno, sono indivisibili. Il tralcio, pur essendo tralcio, è a tutti gli effetti vigna anche lui.
Tutte queste caratteristiche costituiscono anche i presupposti di ogni convivenza umana: Stati, famiglie, parrocchie, comunità religiose. Tutti sono uniti (un’unica vigna), ma ciascuno dei componenti (i tralci), nella loro grande diversità di ruoli, producono frutti diversi.
Così ad esempio in famiglia: ognuno dei componenti è diverso per ruolo e per unicità.
Il ruolo del padre è quello di affrancare, di assicurare, di spingere cioè i figli ad osare, ad uscire da casa, a vivere, a progettarsi, a realizzarsi. È il punto di riferimento. Il ruolo della madre invece è quello di fare semplicemente la madre: nel senso che lei c’è, rappresenta il nido presso cui tutti possono sempre tornare, è il simbolo dell’affetto, della tenerezza, dell’ascolto. I figli infine devono fare i figli: devono cioè imparare a vivere, a crescere, sperimentando e sperimentandosi tra errori e successi, tra percorsi interrotti e traguardi raggiunti. Questo è l’unico loro ruolo. Ed è importante che non ci siano confusioni. Perché, se il padre gioca a fare il figlio, è cioè insicuro, inaffidabile, infantile, immaturo, da chi può imparare il figlio la sicurezza e la fiducia in sé? E se la madre fa la “figlia”, cioè se è lei stessa ad avere bisogno dei figli per colmare i suoi buchi emotivi, i figli dove possono trovare quell’amore che solo lei è in grado di poter fornire?
Se padre e madre non svolgono il loro ruolo di genitori, i figli a loro volta non potranno svolgere quello di figli, ma dovranno fare il padre e la madre di loro stessi. Ma così facendo si saltano dei passaggi fondamentali della vita; è come costruire un palazzo partendo dal secondo piano, il che è impossibile!
In una comunità, dunque, ognuno ha un suo ruolo ben preciso: diverso nella sua unicità, in quanto ciascuno è un unicum irripetibile: c’è chi è amante dell’arte, chi del disegno, chi della musica, chi della pittura, chi dello studio, chi del lavoro manuale. Chi non ama lo studio non è certamente inferiore di colui che ama la ricerca scientifica: si tratta solo di ruoli diversi.
Spesso però noi pretendiamo che gli altri si uniformino in tutto alla nostra volontà; devono essere esattamente come noi li vogliamo: e ci arrabbiamo se non ci riusciamo. Non accettiamo la diversità degli altri. Non accettiamo che nella vita ciascuno viva esprimendo al massimo le proprie potenzialità, si realizzi per la sua strada, diventi cioè quel “tralcio” che solo lui può diventare.
Ciò che unisce una famiglia, una comunità non sarà mai il fare tutti le stesse cose, l’essere tutti uguali; ma è la circolazione della linfa, è l’amore, è il dialogo, la condivisione, la singolarità nella pluralità, è quell’unione profonda che si viene a creare e che fa vivere.
Molte famiglie, molti gruppi parrocchiali, pensano di essere uniti solo perché si riuniscono insieme molto spesso. Ma non è il semplice incontrarsi che dimostra l’unione di un gruppo. Essere uniti è un’altra cosa; significa condividere nell’anima, nello spirito, gli stessi sentimenti, i medesimi ideali; percepire cioè che gli altri condividono il nostro io, la nostra anima, e che noi facciamo altrettanto con loro. L’unità è data dalla vicinanza profonda (mai dalla fusione!) di due spiriti liberi, non dalla vicinanza fisica di corpi: è possibile infatti solo se c’è intimità interiore, di anime, una reciproca convivenza di sentimenti.
Noi che siamo i “tralci”, pertanto, non stacchiamoci mai dalla vigna, che rappresenta l’unica nostra possibilità di sopravvivenza; non stacchiamoci mai dal nostro “interiore”, dalla nostra anima, da ciò che abbiamo dentro; perché nell’esatto momento che ciò avverrà, ci perderemo, ci seccheremo, periremo. Se perdiamo il contatto vitale con la nostra anima, siamo automaticamente morti: è la legge della vita; il tralcio, staccato dalla vite, muore. Non c’è alternativa.
Quando Gesù dice di essere Lui la vite vera, in pratica dice: “Io, solo Io, sono il gusto, il piacere, l’elisir, l’ebbrezza della vita”. Per cui ogni volta che nell’Eucaristia ripetiamo le sue parole: “Questo è il mio calice versato per voi”, sottolineiamo che il sangue versato significa sì sofferenza, l’aspetto difficile del vivere, il suo lato duro, ostico, doloroso, (qui nel vangelo si parla di essere potati, purificati, tagliati); ma proclamiamo anche che quel sangue di Gesù, è il sapore, il gusto della nostra vita, l’unico elemento che ci dà forza, vitalità. La vita ripiena di Dio è gusto, piacere, delizia. Vivere in questo modo è bello, gustoso, appassionante; al contrario, vivere vuoti di Dio, è un peso insopportabile. Dice Gesù: “Dovete gioire di essere al mondo, di essere voi stessi. Godetevi le cose, il creato, le creature, le persone. Io stesso amo la vita, perché sono la Vita”. Non disprezziamo, non sottovalutiamo mai la gioia che Lui ci concede: perché è in questi momenti gioiosi che noi sperimentiamo la bontà di Dio, il gusto, il sapore del suo amore.
Molte persone parlano tanto dell’amore di Dio, ma la loro vita rivela solo tristezza, amarezza, rinuncia. Dio ha creato il mondo, il sole, il vento, le stelle, i fiori, i colori, l’amore, esclusivamente per noi; perché li gustassimo, li assaggiassimo, li assaporassimo, ci riempissimo il cuore e l’anima di essi. Non temiamo di essere felici. Il Talmud dice: “Saremo giudicati su tutti i piaceri legittimi a cui abbiamo rinunciato”. Unica limitazione: dobbiamo evitare di assolutizzare il piacere: non dobbiamo cioè diventare dipendenti, succubi, schiavi del piacere: perché questo ci porterebbe inesorabilmente al disordine, al male.
Tutto ciò che esiste, esiste solo per noi. Non è lì per essere conquistato, nascosto, posseduto in maniera esclusiva, ma per essere goduto apertamente con gli altri, per essere generosamente condiviso.
La natura umana purtroppo è egoista; vorremmo sempre essere solo noi i padroni, i fruitori unici di tutto. Avete presente quando ci troviamo di fronte ad un bel paesaggio? Anche allora inconsciamente ci preoccupiamo subito di fotografarlo, di “metterlo via”, più che di ammirarlo sul posto, di viverlo in quel momento, assaporandone in silenzio ogni particolare, ogni sfumatura. Vogliamo quasi catturarlo, possederlo, tenerlo sempre in esclusiva per noi.
Gioiamo invece perché le cose esistono, perché ci sono. Lasciamole vibrare dentro di noi, assaporiamole, ma lasciamole libere; non pretendiamo di possederle, non sono nostre.
Amiamole così come sono, perché se riusciremo ad averle, non saremo più in grado di goderle, perché il possesso le “fagocita”, le conquista, le afferra, le fa nostre; ma così le oltraggiamo. L’amore è libertà, gioia, felicità; il possesso schiavitù, voracità, insaziabilità.
Concludo: l’immagine della vigna e dei tralci, ci ricorda la legge fondamentale della vita: se ci stacchiamo dalla linfa, moriamo. Punto. Gesù dice: “Rimanete in me”. E ce lo ripete quasi ossessivamente, perché dobbiamo coglierne il pieno significato. È importantissimo, perché in questo rimanere in Lui c’è tutto il segreto della nostra vita; se ci stacchiamo da Lui, dal profondo della nostra anima, per noi è la fine.
I ragazzi di oggi, a chi è visibilmente distratto, chiedono: “Sei connesso?”. Ebbene, chiediamocelo anche noi: il nostro cuore, il nostro cervello, la nostra anima, sono sempre connessi tra loro e con Lui? Guai a chiudere questo contatto; guai a staccare la spina: poiché è l’unico canale attraverso cui riceviamo linfa, forza, vita, amore, felicità. Amen.

mercoledì 22 aprile 2015

26 Aprile 2015 – IV Domenica di Pasqua

«Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore» (Gv 10,11-18).

Del buon pastore il vangelo tratteggia alcune caratteristiche fondamentali.
Buon pastore è colui che segue le pecore, colui che si prende cura di loro: le conosce per nome, una per una, le difende dai pericoli, le protegge dai lupi; se si perdono, va a cercarle fino a quando non le trova; egli ama talmente le sue pecore, da dare per loro la propria vita. È agli antipodi rispetto al mercenario: questo lo fa per lavoro, per soldi, per interesse, per avere un tornaconto. Al mercenario non interessano le pecore, ma ciò che può ricavare da esse. Le utilizza per se stesso.
È esattamente quello che succede troppo spesso nella vita. Invece di prodigarci per i fratelli, invece di aiutarli, noi li usiamo per noi stessi; approfittiamo di loro per controbilanciare le nostre carenze. Abbiamo esempi continui di gente che usa e abusa del prossimo: datori di lavoro, politici, amici, colleghi: “pastori” che dimostrano un certo interessamento nei confronti delle loro “pecore”, solo se esse la pensano come loro, solo se eseguono i loro ordini, solo se non creano problemi, solo se sono produttive. E poi? Il nulla. Non sono “buoni” pastori: non nutrono amore, sono dei tiranni, degli egocentrici, mossi soltanto dalla sete di crescita personale.
Noi tutti abbiamo bisogno di trovare dei pastori: persone che ci siano; persone che ci diano fiducia, sicurezza di essere sempre accolti, accettati, voluti, amati, ascoltati, al di là di ciò che facciamo o di ciò che siamo. Persone alle quali poter dire: “So che se anche tutto andrà male tu ci sarai sempre, non mi abbandonerai, sarai sempre con me, nella buona e nella cattiva sorte”. Persone che ci rassicurano: “Tranquillo, non ti dirò sempre sì, ma per te ci sarò sempre”: in una parola, persone che traboccano di amore.
Questi sono i veri pastori; questi sono i pastori che a nostra volta noi dobbiamo imitare: perché prima o poi, in un modo o nell’altro, tutti siamo pastori. Tutti, indistintamente, abbiamo dei ruoli di guida, di gestione, di responsabilità. Come il prete guida i suoi fedeli, così il genitore guida i suoi figli, il dirigente, i suoi dipendenti; l’amico, un altro amico; il maestro, i suoi allievi. L’immagine del pastore evangelico, ci invita prima di tutto a porre attenzione alle nostre pecore personali. Sì, noi siamo i pastori di noi stessi: il recinto è la nostra vita e dentro ci sono le nostre pecore, ossia ciò che noi abbiamo dentro di noi, le nostre emozioni, le nostre paure, i nostri bisogni. Cosa vogliamo farne di queste pecore? Il buon pastore le ama, le conosce, le sente sue. Non importa cos’hanno queste pecore; sono sue e lui le ama, lui farebbe qualunque cosa per loro. Mai gli verrebbe in mente di non prendersene cura o di disinteressarsi di loro. Sono le sue pecore, sono le sue emozioni, le sue paure. E anche se ne ha novantanove nel suo recinto ma una non c’è, lui va da quella. È quella che ha bisogno di lui.
Essere dei “buoni pastori” in questo senso, vuol dire non essere duri con se stessi, aver pazienza quando sbagliamo, cercarci e ritrovarci quando ci perdiamo, saper aspettare quando qualcosa di noi zoppica, non va.
Tutto ciò che vive in noi ha bisogno di cura, di amore, di protezione, di dedizione; e non ogni tanto, ma ogni giorno. Il nostro crescere, il nostro diventare migliori, ha bisogno di molto tempo, di applicazione, di costanza. “Per quanto? Quanto tempo ci vorrà?” È la classica domanda che tutti, prima o poi, ci poniamo nell’affrontare qualcosa di impegnativo: non lo sappiamo: ci vorrà tutto il tempo che ci vorrà! Già, perché noi vorremmo risolvere tutto velocemente. Il più in fretta possibile. Il che, praticamente, equivale a non affrontare per nulla il problema, o quantomeno cercare una soluzione, un rimedio, una risposta, che non ci coinvolga dentro più di tanto.
Poi, dobbiamo essere i buoni pastori del nostro prossimo. Dobbiamo cioè stare molto attenti a quelle pecore che appartengono al nostro gregge, che ci sono più vicine, a quelle, in pratica, che abbiamo davanti tutti i giorni, con le quali dobbiamo relazionarci più frequentemente: non dobbiamo umiliarle, non dobbiamo gestirle, non dobbiamo usarle, perché come pastori, come guide, come maestri, come genitori, come leader, dobbiamo averne il massimo rispetto, la massima cura: sono le “pecore” affidate a noi, sono le nostre compagne di percorso, sono il nostro capitale umano.
Allora, essere “buon pastore”, vuol dire in pratica non scaricare su di esse i nostri sbalzi d’umore. Quanti dipendenti vivono succubi degli sbalzi d’umore del loro capo! Quanti devono fare i conti con la luna giornaliera dei loro superiori! Questo non va assolutamente bene, perché genera ansia, insicurezza. Non permette di creare fiducia reciproca, nessun clima di serenità.
Essere “buon pastore” vuol dire credere nelle proprie pecore. Credere che in ogni persona c’è un fondamento buono. Significa avere e trasmettere stima. “Io credo in te perché sento che tu sei importante, perché ai miei occhi tu vali”. Se vogliamo essere ascoltati, dobbiamo ascoltare per primi. Al contrario molti abusano della loro autorità: fanno pesare i loro ordini, considerano le persone degli oggetti, degli strumenti, una forza lavoro e basta. Li privano della loro dignità.
Credere nelle proprie pecore, conoscerle, vuol dire valorizzarle. Nessuna è uguale all’altra. Dirigere, guidare delle persone, significa stimolarle, incoraggiarle, aiutarle a tirar fuori il meglio da loro stesse, quello che hanno dentro, che possono dare, spronandole ad essere creative.
Essere “buon pastore” vuol dire soprattutto amare le proprie pecore. E amare vuol dire servire: mettersi cioè al servizio delle loro potenzialità, di ciò che esse sono, di ciò che possono fare, del loro bene. Servire infatti non significa conformare gli altri a noi stessi: ma chiederci: “Cosa è meglio per loro? Per la loro persona?”. Vuol dire mettersi in ascolto, mettersi a servizio del loro mondo, di ciò che essi desiderano, mettendo in secondo piano ciò che invece vorremmo noi.
Attenzione però: questa importante “apertura”, questa sensibilità, non va assolutizzata: non deve cioè “condizionare”, sempre e comunque, il pastore: non deve influenzare senza discernimento le sue valutazioni. Egli deve in ogni caso conservare sempre intatta la sua libertà: chi comanda, chi dirige non può assecondare passivamente ogni eventuale richiesta velleitaria, ogni capriccio delle persone affidate alle sue cure, ai figli, ai dipendenti. Se c’è da dire un “no”, se c’è da correggere, se c’è da puntare i piedi per riprendere una pecora finita fuori strada, va fatto, senza esitazioni o ripensamenti. Il capo, l’educatore, non deve temere il rifiuto, non deve temere di deludere, e soprattutto non deve prestarsi a ricatti psicologici.
Ci sono dei genitori letteralmente in balia dei figli. Non riescono a dire “no”. Non sanno tenere una posizione ferma. Padre e madre finiscono per mettersi l’uno contro l’altra per assecondare i figli: in genere l’una passa per buona, l’altro per cattivo; una, la madre, disponibile a dire sempre di “sì”; l’altro, il padre, a dire sempre di “no”. Entrambi hanno paura di perdere l’amore dei figli: per questo ognuno difende la propria posizione, scendendo anche ad opposti compromessi con se stessi. In questo modo, però, si finisce col permettere al figlio di averla vinta e di comportarsi come vuole. E diventerà ben presto un tiranno, un despota, un narcisista di se stesso; non avrà rispetto di niente e di nessuno, convinto di poter fare sempre ciò che vuole. È fondamentale capire invece che se il pastore non impara a dire “no” quando serve, dall’altra parte non ci sarà mai alcun apprezzamento per il suo “sì”.
Una volta illustrata e discussa la cosa, se obiettivamente non è fattibile, dobbiamo dire di “no”; dobbiamo essere inflessibili, anche se l’altro reagisce male, batte i piedi, minaccia ritorsioni.
Molti pastori hanno paura di dire un “no” deciso: hanno paura di offendere, di ferire, di oltraggiare gli altri. Soprattutto pensano che deludere le loro aspettative, i loro desiderata, equivalga ad averli in odio, ad essere crudeli con loro. Invece non è vero: il dispiacere, la delusione, il disappunto, l'irritazione per dei “no” ricevuti, sono decisamente positivi, costruttivi, obbligano a fare un passaggio altamente educativo, poiché fa capire che nella vita non tutto è permesso e lecito; che sulla nostra strada ci sono dei limiti, dei paletti da rispettare; che la convivenza, la morale, la coscienza, impongono delle restrizioni che ci precludono la possibilità di fare tutto ciò che vogliamo.
Di contro però, i pastori non devono neppure “maramaldeggiare”: non possono cioè infierire sui loro sottomessi, per principio, per partito preso, opponendo sistematicamente, sadicamente, un netto rifiuto ad ogni loro iniziativa: perché anche questo è sbagliato, ancorché fossero pienamente nel giusto; est modus in rebus, diceva Orazio: ogni cosa ha una sua misura, un suo modo ottimale per affrontarla; non bisogna mai scegliere gli eccessi, il rigore preconcetto, perché pur trovandosi nella verità, colui che comanda senza l’amore, senza la carità, non è nessuno e non approda a nulla.
Il buon pastore sta sempre davanti: in greco hegeomai, significa, appunto precedere, condurre, guidare. Chi guida, pertanto, deve precedere gli altri: deve cioè percorrere la loro stessa strada, deve dare il buon esempio, senza urlare ordini in continuazione, ma indicando con i suoi passi i percorsi più agevoli e sicuri.
Le regole che valgono per le pecore, per i sottomessi, per i figli, valgono anche per i pastori, per le guide, per i genitori. Le regole che valgono per i dipendenti, valgono anche per i capi. Se vogliamo che gli altri ci ascoltino, dobbiamo noi per primi ascoltare gli altri. Se desideriamo che ci parlino apertamente dei loro problemi, della loro giornata, noi per primi dobbiamo aprirci, parlare della nostra. Se vogliamo che le regole del convivere siano rispettate da tutti, noi per primi dobbiamo rispettarle. Chi pretende dagli altri quelle cose che lui stesso non fa, perde ogni autorevolezza, si scredita irrimediabilmente di fronte a tutti.
Star davanti alle pecore significa quindi esporsi per difenderle, non tirarsi mai indietro se qualcuna si trova in pericolo, viene irretita, o discriminata; significa difenderla, proteggerla ad ogni costo. Scappare davanti al pericolo, non curarsi del suo benessere, è il comportamento dei mercenari, non del buon pastore. E noi tutti siamo chiamati ad essere dei “buoni pastori”, sull'esempio di Gesù. Amen.


 

mercoledì 15 aprile 2015

19 Aprile 2015 – III Domenica di Pasqua

«Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi» (Lc 24,35-48).
I due discepoli di Emmaus tornano dalla loro incredibile esperienza e raccontano di come abbiano visto e riconosciuto Gesù; anche Pietro racconta entusiasta il suo incontro con il Signore: nonostante ciò quando Gesù si presenta anche agli altri, questi rimangono perplessi e stupiti. Cosa vuol dire tutto questo?
È chiaro: come abbiamo detto domenica scorsa, l’esperienza del Signore Risorto, cioè il sentirlo vivo, presente nella vita, è un’esperienza che ciascuno deve fare personalmente. Gesù infatti dice: “Toccatemi, guardate le mie mani, i miei piedi”. Si tratta cioè di toccare, di percepire, di vedere con il cuore, di rendersi conto che davvero Lui è vivo, che Lui c’è, che Lui agisce.
Non basta che gli altri ci raccontino. Non basta che alcune persone abbiano rivoluzionato la loro vita. Non basta che vediamo persone fiduciose in lui, guarite dalle loro malattie. Non basta che vediamo la felicità negli occhi di chi non l’ha mai avuta dopo averlo incontrato. Nulla ci basta se non abbiamo il coraggio di toccare, di lasciarci coinvolgere, di metterci in gioco. Nulla ci basta se noi dubitiamo.
E perché dubitiamo? Perché non abbiamo fatto alcuna esperienza personale; perché non l’abbiamo incontrato, non l’abbiamo toccato, non ci siamo lasciati coinvolgere. Solo se una cosa l’abbiamo vista e sentita, solo se ci ha cambiato la vita, se ci ha fatto guarire, se ci ha fatto riscoprire la bellezza, la felicità, la gioia di amare, se da morti che eravamo dentro, da disperati, siamo tornati a sentirci vivi, a sentire la vita dentro di noi: ecco, solo allora noi non abbiamo più dubbi; solo allora sappiamo per certo che “Lui è vivo!”.
La fede è un’esperienza, un incontro. Altrimenti rimaniamo nell’ipotesi, nella possibilità, nel dubbio.
Chi dubita non si lascia coinvolgere da nulla. Il dubbio è la pigrizia (o la paura) che blocca qualunque passo in avanti. Siccome vivere, sperimentare, mettersi in gioco significa lasciarsi coinvolgere, uno preferisce dubitare. Finché uno dubita, finché uno pensa, finché uno si pone tutti i perché e i “come mai?” del mondo, rimane fermo, bloccato, non si muove. Dubitare, riempirsi la testa di idee e di infiniti “distinguo”, è un buon pretesto per non lasciarsi coinvolgere, per non volersi impegnare ad incontrare Gesù e a toccarlo.
Luca descrive la difficoltà degli apostoli di credere: non credono ai loro amici; non credono a Gesù, pur avendolo davanti!, e non gli credono neppure dopo aver visto le sue ferite e aver mangiato nuovamente con lui; fanno fatica a credergli anche quando Gesù spiega loro il senso di quanto è accaduto nei giorni scorsi.
Con questo l’evangelista vuol farci capire che la fede è un traguardo difficile, una strada, un cammino in cui si procede gradualmente, passo dopo passo; comporta un divenire lento e faticoso. Noi al contrario siamo quelli del “tutto e subito”, del “detto e fatto”, del “cotto e mangiato”. Ma non funziona così per le cose dell’anima o del cuore. Noi siamo abituati con la TV o il computer: basta un semplice pulsante, un telecomando, e tutto è risolto, vediamo immediatamente le immagini, tutto ci appare chiaro e comprensibile. Ma non funziona così! Nell’anima, nello spirito, tutto avviene lentamente, gradualmente. Tutto va conquistato con gradualità, con pazienza, con perseveranza. È come scalare una parete rocciosa: ogni passo in avanti richiede la sua messa in sicurezza, dobbiamo essere sicuri del nostro punto di appoggio, prima di piantare più in alto un nuovo arpione che ci dia fiducia e certezza. Del resto solo una arrampicata superata tra mille difficoltà può farci apprezzare pienamente l’ebbrezza della vetta: solo l’aver superato ogni contrarietà ci fa capire quanto abbiamo voluto quella conquista e quanta fatica ci è costata; solo allora possiamo gustare con soddisfazione, ogni singola tappa, ogni passaggio, il superamento di ogni situazione contraria.
Luca però, oltre a dimostrarci la difficoltà del nostro cammino di fede, ci descrive anche quali sono le strade di questo cammino che portano all’incontro con Gesù.
La prima strada è mostrargli le nostre ferite: ripetere cioè quello che Gesù stesso ha fatto con i discepoli. Le mani e i piedi feriti, il costato e il cuore trafitto, erano la documentazione della sua sofferenza. Le mani rappresentano il fare, l’agire, il costruire, il realizzare. Molte persone credono che, una volta ferite,“non ci sia più niente da fare, che ormai tutto sia compromesso. Ma non è vero! Non scansiamo, non demandiamo ad altri, quello che spetta a noi di fare: Gesù ci ha insegnato a superare tutte le difficoltà: perché se non siamo noi a realizzare i nostri desideri, le nostre aspirazioni, ciò che ci piacerebbe fare o vivere, chi mai potrà farlo al nostro posto? Perché dovrebbero farlo gli altri? Perché lamentarci che siamo infelici, che la nostra vita non ci soddisfa, che il mondo che ci circonda fa schifo, se poi da parte nostra non facciamo nulla? Perché scusarci col dire “è troppo tardi”, soltanto perché abbiamo paura di iniziare?
Noi non immaginiamo neppure quanta voglia di fare, quanta forza interiore ci assale nel vedere come le nostre mani ferite, incapaci di realizzare, di costruire, di fare qualcosa, se ci fidiamo del Signore, diventino improvvisamente mani forti, gloriose, risorte, guarite, con le quali poter finalmente creare, fare, iniziare, realizzare. Il Risorto vuole che tocchiamo il suo cuore trafitto, perché così facendo, il nostro cuore ferito potrà guarire; e potrà condividere con gli altri una nuova vita vera, intensa e luminosa.
La seconda strada per incontrare Gesù è l’amicizia, la donazione di noi stessi agli altri. Gesù mangiava con gli apostoli. In vita aveva mangiato tante volte con loro e con tante altre persone; amava stare a tavola, perché in quell’occasione creava legami di amicizia, di confidenza, di intimità fra le persone.
Possiamo sentire vivo e chiaro il Risorto, percepirlo in maniera forte quando, tra amici, riusciamo ad aprirci, ad aprire il nostro cuore. Quando parliamo delle nostre cose private, quando riusciamo a raccontare le nostre cose più profonde e siamo accolti, allora ci sentiamo amati, sentiamo la forza della vita pulsare dentro di noi; allora iniziamo a non vergognarci più di quello che siamo; allora troviamo fiducia in noi e in ciò che siamo; allora ci sentiamo interiormente forti. “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome io sono in mezzo a loro”: quando noi possiamo aprirci liberamente, e lo stesso avviene dall’altra parte, allora sentiamo che le nostre anime si riconoscono, si uniscono, si incontrano. Allora possiamo percepire chiaramente che Dio è presente, lì, in mezzo a noi, con noi e fra di noi. Sono queste infatti le comunità del Risorto, quelle che Lui vuole.
La terza strada per incontrare il Risorto è la meditazione e la comprensione delle Scritture. Gesù spiega agli apostoli la sua vicenda, cos’è successo e cos’è accaduto. Noi abbiamo bisogno di comprendere la nostra storia, di comprendere il filo rosso che lega le nostre giornate, perché in questo modo troviamo un significato, un senso, un collegamento nella nostra esistenza. Trovare un senso al nostro vivere è fare esperienza del Signore Risorto: perché così scopriamo che nulla avviene per caso, che tutto ha un senso ben preciso; che ogni cosa avviene per un motivo specifico, che ogni situazione ha sempre qualcosa da dirci: e che quando abbiamo un senso per vivere, qualunque situazione è affrontabile.
Abbiamo bisogno di capire il vangelo e la Bibbia. C’è molta ignoranza a questo riguardo. S. Girolamo diceva: “L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo”; per questo dobbiamo approfondire, andare in cerca della verità, capire.
Perché dobbiamo essere comunità fondate sul vangelo e non sulla creduloneria; dobbiamo appartenere a comunità in cui la gente crede per adesione dell’anima e per ricerca e convinzione personale; dobbiamo vivere la storia e il messaggio di Cristo, avendo il coraggio di dire che nei secoli il suo Vangelo è stato anche frainteso e travisato. Non dobbiamo temere di scandalizzare qualcuno, o che qualcuno ci dica: “Ma cosa ci hanno insegnato i preti finora?” (il che forse è anche vero!). Dobbiamo essere noi una “lettura” vivente e cosciente, perché dove c’è buio, ignoranza, ottusità, lì non potremo mai costruire nulla. La verità ci farà liberi, anche se a volte ci farà male e ci mostrerà un mondo diverso da come lo pensavamo. Tornare al vangelo e a Gesù significa fare esperienza del Risorto. Il Gesù del vangelo ci infiamma l’anima, ci appassiona nel profondo e ci riscalda il cuore: perché il vangelo non è un libro da leggere ma una persona da incontrare e da far entrare dentro di noi. Amen.

 

giovedì 9 aprile 2015

12 Aprile 2015 – II Domenica di Pasqua

«La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco» (Gv 20,19-31).

Il vangelo di oggi descrive due apparizioni di Gesù ai discepoli.
La prima ci spiega cosa può voler dire “vedere” il Signore nella nostra vita; la seconda che “vedere” il Signore è una questione personale: nessuno, cioè, lo può fare al posto nostro; toccarlo, sentirlo, viverlo, sperimentarlo dentro di noi, è un’esperienza che ognuno deve fare di persona.
I discepoli, dopo la morte di Gesù, si erano rinchiusi ben bene nel cenacolo e dicevano: “Se hanno fatto così a lui, cosa faranno a noi?”. La paura e il terrore dominava le loro giornate e la loro vita. Le “porte chiuse” stanno ad indicare che non ne volevano più sapere del Signore, avevano una paura folle, e avevano deciso di dimenticare tutto, di tornare alla loro quotidianità, alla vita di prima. Certo avevano trascorso dei giorni indimenticabili, quando con loro c’era Gesù; erano arrivati anche a credergli, a seguirlo con entusiasmo, ma poi gli ultimi tragici eventi hanno infranto qualunque loro sogno: l’unica possibilità rimasta, dettata dalla paura, è pertanto quella di rinunciare a tutto e di tornare a casa.
È per paura che anche noi molte volte rifiutiamo la fede: non ce l'abbiamo con Dio, anzi lo vorremmo conoscere a fondo, vorremmo che rimanesse nel nostro cuore; sappiamo che Dio non è un nemico, che non viene per ucciderci o per condannarci o per farci del male. Ma abbiamo comunque paura: paura di “aprirgli le porte”, paura di quanto potrebbe trovare dentro di noi, paura che ci metta di fronte alle nostre responsabilità, paura che scopra le nostre maschere, le nostre immagini di facciata, le nostre illusioni costruite sul nulla.
Ma Dio non incute terrore. Dio non vuole mettere nessuno con le spalle al muro.
Incontrarlo significa scuoterci dal nostro immobilismo, dal nostro nasconderci; significa rinunciare al nostro caparbio ed eccessivo proteggerci, dal voler risolvere i problemi da soli, di testa nostra. Far entrare il Signore nella nostra vita è qualcosa di concreto, di vitale, di molto impegnativo, e talvolta anche di doloroso: significa togliere tutti i “paletti”, aprire ogni serratura, spalancare le nostre porte, pregandolo di accomodarsi; significa mettersi completamente nelle sue mani, accettare ogni sua iniziativa; significa farlo entrare proprio là dove regna il potere del buio, della paura, dell’isolamento, dell'ignoranza, della notte.
Tommaso non è presente a questa prima apparizione: come a dire che non è ancora pronto ad incontrarlo: resiste, è ancora dominato dalla paura, non vuole aprire a nessuno.
Ma quando la seconda volta Gesù entra nel cenacolo, presente Tommaso, e dice: “Pace a voi!”, tutte le sue resistenze cadono. Si rende conto che egli non inveisce, non rimprovera, non biasima nessuno: Egli augura la pace a tutti e a ciascuno; col suo saluto vuol dire: “Stai tranquillo, non ti preoccupare, non ti spaventare, ci sono io, non temere, non aver paura”. E per dimostrare che è proprio Lui, “mostrò loro le mani e il fianco”. Perché al primo incontro Egli mette in evidenza le sue ferite? Perché non la sua potenza, la sua gloria, il suo essere vittorioso sulla morte? Per dimostrarci che anche Lui ha sperimentato il dolore: a Lui interessa incontrare prima di tutto, il nostro io sofferente, vuole eliminare anche a noi tutto ciò che ci fa male, che ci impedisce di vivere, che blocca la nostra crescita, la nostra vita interiore, che ci impedisce di camminare spediti e liberi al suo seguito.
Incontrarlo significa per noi sperimentare immediatamente la sua sollecitudine di medico; constatare il suo intervento come determinante e risolutore, al punto da farci riconoscere con sollievo: “è vero, o Dio, avevo proprio bisogno di te; le mie ferite, appena sei entrato, sono completamente guarite. Quanto tempo ho perduto!”.
Purtroppo tanti, troppi cristiani continuano a tenere Dio fuori dalla loro porta, preferendo tenersi le loro ferite. Soffrono e non lo dicono a nessuno; non vogliono farsi curare. Ma la ferita pian piano marcisce, diventa cancrena e porta alla morte. Una ferita non curata, non medicata, infetta tutto l'organismo. La vita di moltissimi uomini è un fiume di sofferenza, è piena di dolore, di rabbia, di lacrime e di umiliazioni: eppure nulla traspare in superficie; dal di fuori tutto sembra normale, tranquillo. Continuano ad essere dominati dalla paura, dal sospetto, dal rispetto umano. Non si fidano di Gesù, non ascoltano le sue parole: “Non temere, lo so che hai una paura folle, lo so che chiudi tutte le tue porte, lo so che ti sei sbarrato in te stesso e non vuoi che io entri, ma fidati, fammi entrare nella tua paura, nei tuoi luoghi chiusi; stai tranquillo, io ti porto solo la pace! Quello che ti è successo, quello che ti sta accadendo, non è casuale. Tu fammi entrare e scoprirai che tutto ti riguarda; ogni tua ferita deve insegnarti qualcosa, devi vivere certe prove, perché solo affrontandole puoi imparare. Fammi entrare e scoprirai che la tua vita, anche nelle difficoltà, anche nel dolore, è ricca di senso”.
La nostra fede ha bisogno di esperienza, è frutto di esperienza personale. Il percorso e le prove degli altri non incidono sulla nostra crescita spirituale; sapere come gli altri hanno incontrato Dio è istruttivo, ma ininfluente per il nostro percorso: il punto essenziale è che dobbiamo essere noi, di persona, ad incontrarlo; inoltre, è di vitale importanza che questo incontro avvenga quanto prima, che sia bruciante, decisivo: dobbiamo conoscerlo, dobbiamo sapere esattamente chi è Lui, dobbiamo sperimentarlo, condizionandogli la nostra esistenza. Dobbiamo fare la stessa esperienza di Giobbe: “Io ti conoscevo per sentito dire, o Dio, ma ora i miei occhi ti vedono…” (Gb 42,4).
I testimoni, i santi, la fede degli altri, non ci basta più: abbiamo bisogno di un incontro decisivo, illuminante, unico, tra noi e Lui. La nostra fede è una questione riservata, appartiene solo a noi, alla nostra sfera personale; è un’esperienza unica, perché avviene esclusivamente tra Dio e la nostra anima. Tutti prima o poi dobbiamo incontrare il Risorto; e dobbiamo farlo di persona: nessuno può sostituirci in questo.
Allora, come Tommaso, anche noi possiamo dire: “Mio Signore e mio Dio”. Anche la Maddalena ha detto: “Mio Signore; rabbonì, mio maestro”. Gesù stesso ha parlato di “Padre mio e Padre vostro” (Gv 20,17). È una espressione profonda, personale, che indica un possesso esclusivo, pur essendo comune a tutti quelli che incontrano Dio. La fede infatti nasce da questa comune esperienza personale di relazione con Dio: è una relazione profonda, diversa in ciascuno di noi, ma comune per tutti, in quanto è una relazione d'amore, di conoscenza, di crescita; un percorso che diventa sempre più agevole attraverso la convivenza con le persone, attraverso gli incontri, il tempo, i gesti d'amore, l’affinamento del nostro io: insomma attraverso le esperienze dell’intera nostra vita.
Quando alla domenica andiamo in chiesa per l’Eucaristia, andiamo per fare un incontro, per alimentare una relazione d'amore, per incontrare, per vedere il nostro Amore.
Molte persone dicono: “Io vado a Messa quando ne ho voglia”. È sbagliato esprimersi così, perché quando si ama qualcuno lo si vuole anche vedere. Gli innamorati vorrebbero vedersi in ogni istante. Ci si sposa per “vedersi sempre”, per stare sempre insieme. Una relazione ha bisogno di frequenza, di vedersi, di conoscersi, altrimenti che relazione è?
Molte persone vanno in chiesa, ma non ci sono con il cuore, con l'anima, con il canto, con la preghiera: non partecipano, non si espongono, non si lasciano coinvolgere. In questo modo non c'è nessuna intimità con Dio, nessun incontro, nessuna relazione. E' come andare dall'amata e non accarezzarla, non darle un bacio. Che amore è? Che rapporto è? Molte persone vanno in chiesa e non ascoltano la Parola di Dio, sono refrattari a qualunque invito, sono sordi, disinteressati, impermeabili a tutto, chiusi nella loro corazza di indifferenza: sono come un fidanzato che invece di ascoltare l'amata ha la testa altrove, è insofferente, pensa alla squadra del cuore. Altre si distraggono per qualunque cosa, per i motivi più futili: quando uno si alza o si siede, quando un bambino fa qualche rumore, al primo errore di lettura; altri non sanno fare silenzio esteriore, né tantomeno quello interiore; non c'è intimità, non c'è profondità nel loro stare in chiesa, alla presenza di Dio. Si distraggono con tutto e tutto li distrae: esserci o non esserci è la stessa cosa.
Ogni volta che noi andiamo in chiesa per l’Eucaristia, abbiamo bisogno di toccare il Signore, di sentirlo, di sperimentarlo. Abbiamo bisogno di fare esperienza di qualcosa che entri, che colpisca, che nutra, che disseti il nostro cuore. Non tutti vi riescono, ma sono tante le persone che, quando escono dalla chiesa in particolari occasioni, pur non sapendo dire esattamente cosa hanno vissuto, sono comunque soddisfatte: “Sono stato bene! Mi sono commosso! Mi sono sentito come a casa mia! Sì, ho incontrato il Signore. Sono felice come una Pasqua”.
Sono espressioni semplici, che rivelano però che quanto meno c'è stato un “incontro”.
Ogni volta che andiamo a messa, mostriamo al Signore le nostre mani ferite: sono ferite debilitanti che riceviamo ogni giorno: sono i pensieri che ci turbano, che ci ossessionano, le ansie che impediscono di esprimerci, di essere noi stessi, di diventare come lui ci ha pensato; le paure, i litigi, le incomprensioni, le relazioni che non vanno, il panico che ci assale, i giudizi della gente. Abbiamo bisogno di disintossicarci dal male, dall'odio, dal dolore. Mostriamogli queste ferite, e ascoltiamo la sua voce che ci tranquillizza: “Pace a te; non aver paura; ci sono io, sta’ tranquillo”. Ci servono queste parole; ne abbiamo bisogno, ci ridanno pace, fiducia e amore per ripartire con vigore.
Ogni volta che andiamo a Messa mostriamo al Signore, come ha fatto lui, il costato ferito. È la nostra ferita del cuore. Rappresenta le ferite più profonde del nostro io: il non essere accettati dagli altri, l'essere rifiutati, l'essere traditi, il non essere considerati nelle nostre necessità. Sono le paure forti e onnipresenti, le sensazioni amare che ci rincorrono sempre, giorno e notte, che non ci lasciano mai, che non ci danno tregua: la sensazione di aver sbagliato tutto; di aver fallito i nostri più importanti appuntamenti con la vita: nel matrimonio, nel lavoro, nell'educazione dei figli; di avere umiliato, usato e sfruttato il nostro prossimo; di esserci abbandonati al vizio e alle sue dipendenze, alle trasgressioni devianti; di non essere riusciti a crescere, di continuare ad essere, anche da adulti, degli eterni immaturi. Offriamole, queste nostre ferite, alla misericordia divina, proprio in quanto laceranti, profonde, umilianti; ferite che ci spezzano il cuore e che ci fanno vergognare profondamente. E aspettiamo umilmente quelle sue parole di cui abbiamo tanto bisogno: “Pace a te; ci sono io con te: non disperare, tu devi risorgere; ristorati qui con me. Io ti accetto così come sei, con calma affronteremo la tua guarigione, tu puoi guarire; e se anche non riuscirai a guarire completamente, io ti amerò comunque”.
Abbiamo bisogno di sentirci capiti, valorizzati, importanti. Abbiamo bisogno di sentirci rassicurati, incoraggiati; abbiamo bisogno di sentirci dire che per Lui noi valiamo più di qualunque altra cosa; che ce la possiamo fare, che possiamo vivere, che la nostra dignità non è del tutto distrutta. Ogni otto giorni, ogni domenica, dobbiamo andare a fare esperienza del Risorto in chiesa. Dobbiamo andare per incontrarlo, per assicurargli il nostro amore, la nostra riconoscenza. Per dirgli che senza di Lui non possiamo più vivere. Amen.
 

mercoledì 1 aprile 2015

5 Aprile 2015 – Pasqua: Risurrezione del Signore

«Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro» (Gv 20,1-9).

Pasqua è il centro focale della nostra fede cattolico-cristiana: Cristo è risorto dai morti.
In genere però le persone non capiscono molto questa festa. Il Natale è più semplice: un bambino che nasce lo capiscono tutti; è una festa che riunisce le famiglie, richiama i parenti, gli amici, lo stare insieme; c’è un anno vecchio che muore, uno nuovo che nasce; un contorno di feste insomma che la gente ama di più.
La Pasqua è più difficile da capire; ci ricorda una tragedia: la crocifissione e la morte di Gesù, e dopo tre giorni la sua vittoria sulla morte. Per quanto esaltante, ci lascia abbastanza freddi e indifferenti.
Ma vediamo prima di tutto cosa significa la parola resurrezione: è una parola che deriva dal latino “resurrectio” i cui componenti concorrono a darci un significato completo: “dirigersi di nuovo da sotto verso fuori”, ossia “andare in senso contrario, da dentro a fuori, dal buio alla luce”. Resurrezione, significa allora, che mentre si andava in un senso, improvvisamente dal di dentro succede qualcosa che ci fa andare in direzione opposta. È un cambiamento di senso, di direzione (dalla morte alla vita) che avviene dentro (sub). Vuol dire che fuori le cose possono anche rimanere uguali a prima (infatti Gesù non è più ritornato in vita), ma dentro tutto è diverso (prima era morto e poi non più), i suoi lo sentono vivo, in maniera forte e chiara.
Storicamente, cos’è successo? Quando Gesù venne arrestato, tutti i suoi discepoli lo abbandonarono e scapparono. Probabilmente se ne tornarono in Galilea, alle loro case. Solo alcune discepole (le donne!) trovarono il coraggio di assisterlo da lontano.
I discepoli vissero un fallimento totale: si sentirono finiti, morti dentro e presi in giro da tutti coloro che li avevano messi in guardia da Gesù: “Come fate a fidarvi di un pazzo? Di un eretico? Di un senza-Dio ?”. E messi di fronte a ciò che era successo, essi convennero: “Avevano proprio ragione!”.
Ma poi successe il vero miracolo della resurrezione: quel Gesù che credevano morto, finito per davvero, davvero sepolto; quella loro esperienza con Gesù, che pensavano chiusa per sempre, improvvisamente riacquistò tutta la sua attualità: essi cominciarono a sentire dentro di loro proprio quello stesso Gesù, morto sulla croce: e lo sentivano vivo, potente, presente nuovamente nella loro vita in maniera inequivocabile, indiscutibile. Era così presente che “lo videro” chiaramente: non c’era nessuna possibilità di errore. I discepoli che il venerdì santo erano disperati ed erano tutti fuggiti via in preda alla paura e al terrore più totale, alcune settimane dopo, a Pentecoste, erano pronti ad annunciare Gesù risorto, vivo, Signore del mondo. Per lui andavano in prigione, per lui venivano derisi, umiliati, percossi, ma nulla li fermava più. Per lui potevano anche morire e molti di loro furono davvero giustiziati: ma nulla poteva fermarli. C’era in loro un fuoco che non si spegneva mai.
Tutto questo è successo e ne siamo certi: non si può spiegare come quei discepoli abbiamo potuto cambiare in maniera così radicale, profonda, decisiva, fedele, in così breve tempo, se non con l’irruzione in loro di una forza divina. O erano tutti impazziti o ciò che dicevano era vero: “Il Signore è risorto, noi lo abbiamo visto! Il Signore è vivo, lo sentiamo, è dentro di noi, vive in noi e con noi”.
Possiamo pertanto convenire che la resurrezione è stata una esperienza inaspettata e incredibile, fatta personalmente dagli apostoli. La cosa viene ben descritta nel vangelo.

Pietro e Giovanni, la mattina di quella domenica, si fanno una bella corsa. Giovanni descrive con scrupolosità come sono andate le cose: egli, più giovane, arriva per primo ma non entra; è Pietro, giunto subito dopo di lui, che entra per primo. Nonostante ciò Pietro non vede: chi vede è Giovanni. È chiaro che qui “vedere” equivale a “credere”. Pietro, infatti, nel vangelo è colui che vuol capire con la testa (Cefa), con il raziocinio; Giovanni, invece, “quello che Gesù amava”, è guidato dall’amore, dall’intuizione, dal sentimento. Sia la mente che il cuore crederanno: ma la mente cerca di controllare il sentimento, cerca di contenerlo, perché il sentimento è come un’onda d’urto travolgente. La mente ci serve per capire, per spiegare, per interpretare. Ma l’organo della vita è il cuore: l’anima, l’amore, la vitalità, lo stupore, la fede, la conoscenza di Dio, si percepiscono, si “sentono”, si sperimentano: poi la mente spiega cos’è successo.
Di fronte ad un dolce la mente cerca di individuarne i componenti, per capire se è più o meno buono: il cuore al contrario lo assaggia, lo gusta e ne sente subito la bontà.
Siamo Pietro, la mente, la durezza, quando non vogliamo fare spazio alla vita che c’è in noi: vediamo tante cose, ma è come se non vedessimo nulla, perché quello che vediamo non ci emoziona. Siamo invece Giovanni, l’amore, l’interiorità, il sentimento profondo, quando non solo vediamo, ma anche “capiamo” immediatamente.
Quando parliamo con una persona cara, guardiamola negli occhi, entriamole dentro. Ascoltiamo non tanto cosa ci dice, ma le vibrazioni del suo cuore; cogliamo la sua tristezza, il suo slancio, la sua meraviglia, il suo amore. Quando la abbracciamo, “sentiamola”, chiudiamo gli occhi e riconosciamola dalla fragranza della sua pelle, dal profumo del suo corpo. Quando cantiamo, fermiamoci e ascoltiamo le onde che vibrano dentro di noi; onde che provocano emozioni, che fanno risuonare le corde della nostra anima. Quando siamo in chiesa, facciamo silenzio, mettiamo da parte ogni pensiero e ascoltiamo il battito del nostro cuore: allora potremo percepire forte e chiara la presenza di Qualcun altro dentro di noi.
Ogni tanto fermiamoci e ascoltiamoci. All’inizio magari usciranno da dentro di noi demoni e mostri. Ma se avremo pazienza, con calma, nel silenzio, nel tempo, scopriremo dentro di noi una presenza soprannaturale, sorgente inesauribile di vita e di luce.
Resurrezione è poter cogliere l’invisibile nel visibile. Ma ci servono degli “occhi speciali”, gli occhi della fede, quegli occhi che varcano la soglia della materia, riuscendo a cogliere la vera realtà delle cose. Con la resurrezione di Gesù, noi affermiamo: Dio è qui. Dobbiamo solo cercarlo, dobbiamo solo scoprirlo, dobbiamo solo conoscerlo.

Il testo del vangelo ci dice che Maria di Magdala si recò di buon mattino quand’era ancora buio. Sono due momenti temporali completamente diversi: “di buon mattino” vuol dire luce, giorno; “quand’era ancora buio” vuol dire buio, notte. Apparentemente sono una contraddizione. In realtà esprimono i due aspetti di un unico evento: nel cuore di quella donna e dei discepoli, tutto era finito, e per questo era davvero buio, anzi di più, era notte. Ma stava per accadere qualcosa di unico: stava venendo fuori la luce, la Vita, la vitalità.
Ogni volta che diciamo: “È tutto finito”, dobbiamo sapere che, in qualche modo, sta nascendo qualcosa. Un qualcosa che ci pone su un altro livello, che ci chiede di fare un salto dinamico, un salto di crescita, un salto evolutivo. Questa cosa si chiama fede. Avere fede significa poterci fidare, perché in tutto ciò che ci succede, c’è sempre Dio che tenta di plasmarci, di forgiarci, di purificarci. Tutto ciò che ci succede è bene per noi: certo, a volte è doloroso, duro, per niente piacevole, ma è necessario, perché tenta di farci andare nella giusta direzione.
Se rimaniamo a livello di storia, come è successo per gli apostoli, diciamo: “Che disastro! È tutto finito! Gesù è morto”. Ma se compiamo il “salto” di fede, diciamo: “Tutto ha un senso! Ora capisco, Dio sia lodato per tutto ciò che fa!”. Da un punto di visto storico, una crisi è sempre buio pesto, è sempre difficile, dolorosa, non piace a nessuno, tutti vorremmo evitarla: separarsi definitivamente da una persona cara è sempre molto doloroso; vedere distrutti i progetti di una vita è profondamente destabilizzante; constatare di aver sbagliato tutto, dopo tanti anni di lavoro e di sacrifici, è davvero deludente. Ma da un altro punto di vista, se facciamo il salto di qualità, di fede, di evoluzione, allora tutto è resurrezione, è vita. Ogni fatto grave, per quanto grave sia, per quanto ci costringa nel buio più totale, se riusciamo a fare il nostro salto, diventa “luce”, diventa vita, diventa resurrezione.
Tutto ciò che ci succede sarà sempre buio, notte, morte, se rimaniamo allo stadio iniziale, senza fare alcun salto. Tutto ciò che ci succede sarà prezioso, grazia, benedizione, gratitudine, se compiamo quel salto. Un salto che nessuno può fare al nostro posto; solo noi possiamo farlo.
Molti sono perennemente infuriati, rabbiosi, perché nel mondo succedono le peggiori cose; perché attorno a loro tutto va storto: la moglie, il marito, ha fatto una cosa; il collega, l’amico, ne ha fatta un’altra; il figlio non si comporta come deve; insomma il mondo intero gira nella direzione sbagliata. Ma vivere così non serve. È necessario fare un salto di resurrezione, un salto che ci trasferisce dalla materia allo spirito. E dobbiamo farlo personalmente.
Ma in che cosa consiste questo “nostro” salto interiore, evolutivo, che dobbiamo fare? Prima di tutto non dobbiamo accusare il mondo, gli altri: il mondo in se stesso non ha nulla di male, gli altri sono comunque figli dello stesso Padre; sono soltanto diversi da noi, non sono noi: seguono vie diverse, hanno tempi di crescita diversi: forse noi siamo chiamati a lavorare fin dalla prima ora, loro magari all’ultimo istante: ma tutti indistintamente dobbiamo presentarci davanti allo stesso Signore della vigna. Le accuse non servono, ci pongono in un ruolo che non è il nostro. Dobbiamo invece guardare le cose con occhio sereno, nella loro giusta luce. Perché se leggiamo l’oggi alla Luce dell’Amore di Dio, allora ci accorgiamo che tutto acquista la sua autenticità, tutto ha un senso, il suo lato buono; il male assoluto, nella sua ineluttabilità, si trasforma all’istante in un bene concreto, possibile: tutto diventa recuperabile, riscattabile; tutto diventa positivo; magari non riusciamo subito a capire come, ma sicuramente tutto acquista una nuova prospettiva. È vero: dobbiamo vivere tutti i nostri giorni da protagonisti, con entusiasmo, con iniziative sempre nuove; ma dobbiamo farlo sapendo che il “mondo” non è nostro, non ci appartiene; risponde a delle regole che trascendono la nostra comprensione. Noi dobbiamo imparare a guardare oltre il mondo; dobbiamo imparare a guardare il “nostro” mondo, perché è su questo che dobbiamo lavorare, è questo che dobbiamo cambiare. Prima o poi verrà un giorno in cui la morte si presenterà alla nostra porta, e ci chiederà il “consuntivo” del nostro lavoro: è il normale ciclo della vita: inutile abbandonarci alla disperazione. Inutile opporsi: “No, non voglio. Ho ancora tanto da fare qui. Ora non sono ancora pronto!”. Inutile dimenarsi: non abbiamo appigli o avvocati a sui appellarci. Allora capiremo che tutto quello che pensavamo “nostro”, lo abbiamo avuto soltanto in “concessione” “in uso”; niente e nessuno ci appartiene, niente e nessuno può intervenire per noi: con nulla siamo nati, con nulla moriremo. Assolutamente soli. Soltanto se siamo abituati a guardare con gli occhi della fede, potremo sentirci sorretti dall’Amore: grazie a quella minuscola scintilla d’amore che abbiamo riservato ai fratelli, potremo avviarci con fiducia, con gioia, verso la Luce, cantando: “Si torna a casa! Si va verso la Vita! Eccomi!”. Amen.