giovedì 16 febbraio 2017

19 Febbraio 2017 – VII Domenica del Tempo Ordinario

«Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra» (Mt 5,38-48).

Continuiamo anche oggi la lettura del Discorso della montagna (Mt 5-7), sintesi di tutta la predicazione di Gesù, “magna carta” per meritare l’accesso al Regno di Dio.
Abbiamo visto domenica scorsa la premessa di Gesù: contro quanti affermavano che era venuto per abolire la Legge e i Profeti, Egli continua ad assicurare che non avrebbe annullato proprio nulla, anzi che con Lui tutte le Scritture avrebbero trovato la loro autenticità, il loro “compimento”: solo Lui, infatti, personificazione dell’amore e della volontà del Padre, con la sua natura, con la sua vita, con la sua Parola, poteva offrire il vero senso della Legge e delle promesse profetiche, innestandole al grande “comandamento dell’amore”.
Nel vangelo di oggi, Gesù continua dunque a contrapporre un prima e un dopo: una norma consolidata nel tempo e normalizzata, che Lui rilegge, perfeziona e completa con i suoi insegnamenti: non propone una legge nuova, ma un compimento nuovo, rivoluzionario, unico, come unica è la sua giustizia, riflesso dell’amore del Padre.
In pratica Gesù capovolge l’equilibrio imperfetto e precario della Legge antica: la rilancia, proponendo una nuova visione dei valori decisamente più stabile, completa e radicale; una visione che si poneva decisamente “oltre” la prassi di allora, in una prospettiva di vita completamente nuova, fino ad allora impensabile; come? non opponendo resistenza al malvagio, ma rispondendo  ai suoi attacchi, anche se crudeli e feroci, con amore; pregando per i nemici, assumendo come modello ideale la misericordia di Dio, che è Padre di tutti, buoni e cattivi.
“Occhio per occhio, dente per dente” prescriveva infatti la legge del taglione: che non era poi un incitamento a vendicarsi, ma la positiva introduzione di un certo “limite” alle smisurate rappresaglie vendicative con cui si usava rispondere ad un torto ricevuto. In pratica: “Se intendi vendicarti per un’offesa, fallo alla pari, non andare oltre la misura dell’offesa ricevuta”. Una legge che garantiva una certa equità, ma comunque decisamente imperfetta: di essa Gesù propone infatti un sostanziale miglioramento, in grado di assicurare al cuore e alla vita dell’uomo, pace e serenità. “Io vi dico, amate i vostri nemici”.
Ma cosa vuol dire “amare i propri nemici”? Bisogna fare qui una piccola distinzione: dobbiamo cioè distinguere l’amore concreto da quelle che sono le sensazioni, i “sentimenti d’amore”. Mi spiego: Gesù non dice: “Devi sorridere ai tuoi nemici” oppure “devi provare simpatia, considerazione, ammirazione per loro”, o ancora “devi sentire affetto” per i tuoi nemici, per chi ti ha fatto del male, per chi ti ha ferito (che sono tutti “sentimenti d’amore”). Gesù non è uno sprovveduto; Egli sa benissimo che non si possono comandare le “emozioni”. Egli in pratica dice un’altra cosa: “Ama in maniera concreta i tuoi fratelli, anche se sono tuoi nemici, e lo devi fare indipendentemente dalle tue emozioni”. Cioè: “Devi comunque continuare a far loro del bene, a fare sempre ciò che è bene per loro, ciò che è meglio per loro, anche se in cuor tuo nutri naturali sensazioni contrarie; devi usare nei loro confronti la massima carità, quella vera, autentica, anche se li consideri tra i tuoi nemici peggiori”.
In sostanza non dobbiamo mai abdicare all’amore per far posto alle nostre naturali e lecite emozioni di rabbia, di risentimento, di disappunto. Perché facendo così finiremo per avvelenare il nostro cuore.
Noi siamo convinti di essere buoni cristiani, persone oneste, perché amiamo la nostra famiglia, rispettiamo i nostri amici, vogliamo bene ai vicini, non facciamo loro del male. Ma Gesù ci dice che se amiamo “quelli che ci amano”, non facciamo nulla di straordinario: questo lo sanno fare tutti, anche quelli che non hanno fede. La nostra vita, purtroppo, è talmente impantanata nella mentalità di questo mondo, che siamo convinti di essere giusti, “osservanti”, pii cristiani, anche quando facciamo le cose più naturali, più ovvie di questo mondo, cose che non richiedono alcuno sforzo, come per esempio amare chi ci ama. Il problema serio nasce invece quando non siamo amati, quando il nostro amore non è corrisposto, quando non siamo capiti, quando veniamo fraintesi, quando ci sentiamo compatiti o addirittura odiati! Come ci comportiamo allora? Beh, ovviamente, facciamo quello che ci riesce più facile, più naturale, più immediato: piuttosto che perdonare e amare, ripaghiamo con la stessa moneta: “Ti sto antipatico? Anche tu a me! Non mi sopporti? Neppure io! Mi odi? Io pure!”. Del resto, pensiamo, che male c’è? Non facciamo nient’altro che restituire agli altri ciò che riceviamo! Attenzione però, perché, alla fin fine ciò equivale a: “Occhio per occhio, dente per dente”. Ossia, anche noi, da “buoni cristiani”, ci avvaliamo dell’antica logica “del taglione”.
L’ideale di perfezione propostoci oggi da Gesù è invece di gran lunga superiore, contiene un messaggio nuovo, sconvolgente e rivoluzionario. È il più controcorrente di tutti, perché non si tratta tanto di osservare una legge umana, ancorché difficile, impossibile, ma di donare a tutti la stessa vita di Dio: l’amore.
Una cosa, l’amore vero, autentico, che oggi è decisamente svalutato dalla nostra società. Quanti di noi, infatti, sono disposti ad accettare in pieno le parole del Vangelo? Eppure esse costituiscono l’essenza del cristianesimo, sono l’unica chiave per capire e vivere la nostra religione! È una delle cose straordinarie che Cristo richiede da noi. Cose straordinarie che dobbiamo fare in maniera ordinaria, ogni giorno! Se ci professiamo cristiani, ma non parliamo il linguaggio dell’amore, del perdono, della non violenza, noi professiamo e diciamo il falso. Dobbiamo invece essere convinti che l’amore è più forte dell’odio. Dobbiamo credere che solo l’amore assicura all’umanità un domani migliore. Qualcuno ha detto che il cristiano, o è l’uomo del paradosso, o l’uomo della banalità. Ebbene, noi non possiamo annullare la potenza del Vangelo,il “paradosso” di Cristo, adeguandoci alla mentalità della “legge del taglione”, alla banale mentalità mondana.
Dobbiamo ridare all’amore la sua vera dimensione, scoprendone la bellezza, la grandezza e le esigenze. L’amore è sicuramente la prova più difficile e impegnativa alla quale un cristiano è chiamato. Ma è anche la testimonianza più alta che egli possa dare alla sua fede. Nella vita noi potremo avere al massimo due o tre occasioni per dimostrare a tutti il nostro “eroismo”; ogni giorno però abbiamo la possibilità di amare, di amare tutti, di amare sempre. Sì, perché se tutto quello che facciamo, dalle cose più semplici a quelle eroiche, non le facciamo per amore, non servono a niente.
Ecco allora che ci aspetta una belle sfida, un bel percorso in salita.
Del resto tutto il “discorso della montagna” ci pone di fronte non ad una, ma ad una “catena di montagne” da scalare: il punto d’arrivo più alto, la vetta panoramica da raggiungere, ci viene indicata proprio dalle parole di Gesù con cui Matteo conclude il vangelo odierno: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”. In estrema sintesi Gesù ci raccomanda: “Dovete essere sempre quel che siete!”. Che vuol dire? Che siamo figli di Dio chiamati ad essere sempre come Lui; siamo sue creature, il cui vivere naturale deve diventare soprannaturale, creature finite create e proiettate verso l’Infinito. Siamo tutti immagine di Dio: e siamo tali, siamo cioè noi stessi, soltanto se siamo “santi, perfetti” come Lui.
Allora, e concludo, essere “santi come Lui”, significa condividere con Lui quel medesimo amore con cui Lui ama tutte le sue creature; significa diventare un “segno”, una “icona” del suo Amore nella nostra quotidianità; significa spendere la nostra vita a favore dei fratelli, con un amore pari a quello che noi stessi riceviamo continuamente dal Padre. Amen.


giovedì 9 febbraio 2017

12 Febbraio 2017 – VI Domenica del Tempo Ordinario

«Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento» (Mt  5,17-37).

Abbiamo detto che il “Discorso della montagna” costituisce la sintesi di tutta la predicazione di Gesù. Il Vangelo di oggi, di cui è parte essenziale, ci offre la chiave di lettura, l’autentica interpretazione del suo “nuovo” e rivoluzionario messaggio, spiegando a chiare lettere la sua stretta connessione con il pensiero veterotestamentario e con la Legge mosaica.
Di “nuovo” in pratica non c’è proprio nulla, tant’è che Gesù lo rimarca subito: “Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti…”. Assolutamente no! Egli non è “contro” la Legge: anzi si dichiara apertamente a suo favore.
Ma perché Gesù ha sentito il bisogno di questo chiarimento? Semplice: perché i “custodi dell’antica Legge”, i dottori della legge e i farisei, vedevano in Gesù un nemico, uno che non perdeva giorno per condannare, di fronte al grande pubblico, la loro ottusa interpretazione della Legge e della Scrittura; uno quindi che doveva essere messo a tacere ad ogni costo: e per questo ogni occasione era buona per screditarlo proprio con quella popolazione che lo seguiva entusiasta, vedendo in Lui, finalmente, l’incarnazione messianica tanto attesa, il restauratore del popolo ebraico.
Non dobbiamo dimenticare che Gesù è un ebreo: è nato in Palestina, da genitori ebrei, ha parenti ebrei, vive in una cittadina di soli ebrei. Il concetto chiave, assorbito con la nascita, era per Lui, come per tutti gli ebrei, l’Alleanza. Che voleva dire? Che Dio ad un certo punto della storia, aveva scelto il popolo ebraico come suo prediletto, aiutandolo sempre e in tutto, anche a scapito degli altri popoli. Unica condizione, unica contropartita, era la fedele osservanza della Legge che Dio aveva posto a suggello dell’antica Alleanza, stipulata con il patriarca Abramo. Pertanto, l’osservanza scrupolosissima della Legge costituiva l’unico elemento qualificante la loro religiosità. Un’osservanza però che, grazie proprio alle cavillose e ossessive interpretazioni delle autorità religiose, si era ridotta ad una vuota formalità esteriore.
Gesù, indignato per tale comportamento fuorviante, con la sua predicazione dice “Basta, così non si può più andare avanti!”: il rapporto con Dio non si può basare sulla Legge, sull’Alleanza, sul fatto che “noi siamo ebrei, noi veniamo da Abramo” (Gv 8,33), e poi ognuno si comporta come più gli piace. Non è più possibile continuare a fare il proprio comodo, giustificandosi che è “volontà di Dio, parola di Dio” ciò che non c’entra nulla con Dio. Pertanto: “Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli”.
A quel tempo tutti ormai pensavano: “Se lo dice la Bibbia, se è scritto nella Legge, allora si può fare!”. Ma Gesù: “No, neppure per sogno! Non bisogna essere fedeli alla lettera, alle parole, ma allo Spirito. La prima regola non è la Bibbia ma il cuore. Anche se lo dice la Bibbia, ma è contro il cuore, contro l’amore, allora è contro Dio”.
È chiaro allora come mai scribi e farisei fossero tanto furiosi con Gesù, perché le autorità più intransigenti lo odiassero profondamente.
Gesù però non è contro la Legge: lo ribadisce oggi. È contro l’interpretazione che di essa veniva data. Perché fare le cose “legalmente”, significa farle per “sentirsi in regola”, non certo per amore. L’amore comandato è “obbligo”, non è amore. L’amore non si può imporre.
Quindi Gesù non abolisce l’Antica Alleanza, ma la riporta al suo spirito. La conduce dall’esteriorità all’interiorità, le dà compimento, la fa evolvere dall’antico al nuovo. I suoi criteri di giudizio pertanto si scostano da quelli di una volta: “Avete inteso che fu detto agli antichi… ma io vi dico…”. Chi sono questi “antichi”? Non è certo gente qualunque: Mosè, Abramo, Isacco, Giacobbe; sono i capisaldi della religione ebraica: Gesù, in realtà, rompe con ciò che tutti consideravano “legge”, con quegli schemi che tutti davano per scontati. Rompe non con “gli antichi”, ma con l’interpretazione falsa e stupida che la gente dava degli “antichi”. Questi infatti avevano creato delle leggi adatte al loro tempo; e lo avevano fatto per dei motivi ben precisi, per giuste necessità.
La legge del sabato, ad esempio; una legge che a noi può sembrare stupida: Gesù, invece, ne capisce benissimo il senso originario: la maggior parte della gente era dei poveracci che lavorava per i ricchi. Ora, senza questa legge che vietava il lavoro nel giorno di sabato”, i poveracci sarebbero stati costretti a lavorare anche in quel giorno. Con la Legge, è Dio stesso che ordina il riposo, e quindi tutti, ricchi e poveri, devono conformarsi ad essa. Gesù, a questo punto, non elimina la legge del sabato (il riposo è obbligatorio per tutti), ma una sua interpretazione troppo legalistica, assurda, fuori dalla realtà: in pratica cioè Gesù dice: “Se di sabato una pecora ti cade in una fossa, è ovvio che devi prenderla e tirarla fuori” (Mt 12,11).
Oppure la legge sulle decime:  le somme pagate dagli ebrei non servivano solo a mantenere il tempio e i suoi funzionari, ma anche a dare un pasto festivo ai poveri e agli emarginati della società che altrimenti non avrebbero avuto nulla da mangiare (Dt 14,24-27). Gesù non l’abolisce, perché sa che pagare “la decima” permetteva a molte persone di sopravvivere. Si arrabbia invece quando le persone, pagando le decime, pensano di essere completamente in regola con Dio. Così pure con i sacrifici al tempio, che permettevano a chi aveva peccato, chi aveva frodato, rubato, ecc., di venire riammessi nella comunità. Lo scopo iniziale era quindi di ottenere il perdono: se infatti uno aveva rubato, non solo doveva restituire ciò che aveva sottratto, ma un quinto in più del suo valore a titolo di “dono”, di “sacrificio” a Dio. Gesù allora non se la prende con i sacrifici in quanto tali, ma con coloro che li compivano quasi per “comprare” Dio, e sentirsi a posto con la propria coscienza.
Le leggi poi evolvono, cambiano. Gesù non dice: “Abramo, Mosè e gli antichi, hanno sbagliato”. Loro sono stati importantissimi per il loro tempo: ora però sappiamo cose che una volta non sapevano; ora abbiamo capito che Dio non è più soltanto un giudice che punisce chi sbaglia, ma è soprattutto un padre amoroso; abbiamo capito che Dio non è proprietà esclusiva di qualcuno ma è di tutti; abbiamo capito che Dio è misericordia, compassione, tenerezza anche per le donne, i bambini, gli esclusi, i lebbrosi e i peccatori. Questo “gli antichi” non lo sapevano: e noi oggi non possiamo rimanere stoltamente attaccati alle “loro” regole: le regole sono fatte per l’uomo e non l’uomo per le regole (Mc 2,27). Le regole servono per vivere, ma quando vanno contro la “vita”, non servono più e devono essere semplicemente sostituite da altre.
È successo anche recentemente, ricordate? Una volta le donne non votavano. Poi si è capito il valore della pari dignità tra uomo e donna e allora la regola è cambiata. In Italia la donna vota dal 1946; la prima nazione in cui la donna ha votato è stata la Nuova Zelanda nel 1893. Le leggi cambiano in base all’evoluzione della gente.
Una volta la lingua Liturgica era solo il latino: finché la gente capiva qualcosa, andava tutto bene; quando però non capì più nulla, al punto che durante la messa, mentre il prete faceva le “sue cose”, la gente passava il tempo recitando il rosario, si decise di introdurre anche la lingua “parlata”. Altra legge liturgica era che per fare la comunione bisognava osservare il digiuno stretto dalle ventiquattro ore prima.
Sono tutte regole che andavano bene, che avevano un senso, in un certo tempo. Poi le cose sono cambiate. Anche quelle che oggi sono le nostre regole, domani forse non lo saranno più.
Le leggi evolvono: non dobbiamo quindi attaccare alle regole ma allo spirito che sta dietro alle regole. Soltanto i valori rimangono immutati, durano per sempre; le regole non sono altro che l’applicazione pratica dei valori. Finché ci aiutano, le rispettiamo; quando non ci aiutano più le superiamo e ne facciamo delle altre.
Gesù, dunque, nel “contrapporre” la “sua” legge a quella patriarcale, va oltre: per Lui tutto ciò che è decretato contro l’uomo, è anche contro Dio, e quindi va corretto, va rivisto.
Nessuno può giustificarsi ancora dicendo: “È scritto nella Bibbia, quindi si può fare, è permesso!”. Il primo criterio che uno si deve porre è invece: “Quello che sto facendo è amore? Cosa dice il mio cuore, la mia coscienza?”. La Legge, per esempio, ordina di “non uccidere”, di non procurare la morte; ma l’uccisione non riguarda solo la “morte fisica”, puntualizza Gesù; c’è anche una morte civile, spirituale, che si attua con le parole, con la calunnia, con la maldicenza. L’omicidio verbale talvolta è più crudele, richiede più cattiveria, più falsità, di quello fisico.
Così per l’adulterio: la giustizia legale era “opinabile”, nel senso che difficilmente il marito veniva accusato di infedeltà: quando desiderava un’altra donna, ripudiava tranquillamente la moglie, anche con stupidi pretesti, e si univa legalmente con un’altra donna; la moglie invece non aveva alternative possibili: per sopravvivere era costretta a “risposarsi”, cadendo automaticamente nella qualifica di “adultera”. Allora Gesù dice: “State attenti! Non guardate solo alla forma, alle parole, ai cavilli legali che sono solo a vostro tornaconto. Il vostro relazionarvi sia sempre mosso dall’Amore”.
È l’amore che deve guidare i nostri passi, è l’amore che deve essere l’unico nostro punto di riferimento. L’amore esige mille attenzioni, la fedeltà all’amore è estremamente complessa e variegata: si è infedeli all’amore, per esempio, anche solo non facendo nulla per alimentare l’amore, per tenerlo vivo; siamo infedeli anche quando siamo freddi, distaccati, insensibili, quando umiliamo l’altro; non solo quando lo picchiamo o gli usiamo violenza, ma anche quando più semplicemente non gli apriamo il nostro cuore. L’amore non si esaurisce nell’atto sessuale, è molto, molto di più. Coinvolge l’intera vita comune. Non si può ridurre l’infedeltà matrimoniale al solo tradimento sessuale. Gesù ha una concezione molto più ampia: è “adultero” non solo chi compie l’atto fisico fuori dal matrimonio, ma anche colui che con il cuore, con la mente, si lascia andare a desideri osceni, sconci, indecenti. In proposito Gesù usa un linguaggio paradossale molto forte: “Se il tuo occhio ti è occasione di scandalo, cavalo… se è la tua mano, troncala e gettala via da te (Mt 5,29-30)”. L’occhio, nella Bibbia, è simbolo del desiderio, del voler possedere ciò che si vede. La mano è il simbolo dell’azione, del fare, del dare seguito e compimento al desiderio.
In pratica Gesù dice: “Se c’è qualcosa in te che devi cambiare, anche se è difficile, doloroso, devi farlo, devi estirparlo. Perché altrimenti “sei fuori” (“gettato nella Geenna”).
Quando c’è una cosa da fare, dobbiamo farla. È inutile barcamenarci dicendo: “Ma è difficile! Mi fa star male! Cosa dirà la gente? Perderò degli amici?”. Talvolta prendere delle decisioni è come andare dal dentista per sottoporsi ad un intervento doloroso: noi lo eviteremmo ben volentieri, ma non abbiamo alternative: dobbiamo necessariamente passare di là. E allora, anche nel nostro vivere l’amore, dobbiamo “ravvederci”, dobbiamo “convertirci”, dobbiamo cambiare in meglio: per vivere pienamente, per realizzarci, per “volare”, per essere noi stessi, non possiamo rimandare più: facciamolo e basta. Amen.



venerdì 3 febbraio 2017

5 Febbraio 2017 – V Domenica del Tempo Ordinario

«Voi siete il sale della terra… Voi siete la luce del mondo!» (Mt 5,13-16)

Il brano del vangelo di oggi si trova, come quello di domenica scorsa e tutti quelli delle prossime domeniche, nel Discorso della Montagna (Mt 5-7), che costituisce il programma di Gesù, il manifesto, la sintesi di tutta la sua predicazione: Gesù non ha scritto libri, non ha pubblicato manuali di comportamento, ma ha lasciato questo grande e meraviglioso “Discorso della Montagna”.
Il testo di oggi ci propone in particolare due immagini riferite da Gesù ai suoi: «Voi siete il sale della terra… Voi siete la luce del mondo!».
Da notare innanzitutto i due verbi “siete”; non sono degli imperativi (“dovete essere!”) ma degli indicativi: indicano cioè una condizione già in atto, già presente in noi: vivere in questo modo, è già nelle nostre possibilità. Noi siamo “sale”, siamo “luce”: quindi è naturale vivere di conseguenza.
Ma come è possibile, visto che sale e luce presentano due caratteristiche completamente opposte? Se la luce infatti è immediatamente percepibile, non altrettanto succede per il sale. Il sale non si vede: però lo sentiamo subito, lo riconosciamo, ne percepiamo la presenza, anche se non lo vediamo: ci è mai capitato di mangiare una pietanza senza sale? Ce ne saremo accorti immediatamente!
Sale e luce, sono pertanto due realtà che si impongono immediatamente all’attenzione di chiunque e quindi sono entrambe facilmente armonizzabili nella nostra vita.
Cerchiamo allora di cogliere nel dettaglio il significato di queste caratteristiche, che Gesù simbolicamente ha trasformato in “virtù” determinanti per i suoi discepoli.
Prima di tutto il sale. Quali proprietà emergono dal testo? Che è invisibile, che non si vede, che la sua presenza non è percepibile all’occhio, ma che se non c’è, se manca totalmente, ogni cosa perde di sapore, di gusto, tutto appare senza senso, senza incisività.
L’importanza del sale e la sua indispensabilità non era una novità ai tempi di Gesù: non è una sua. Sappiamo infatti dalla storia che anticamente questo minerale era ritenuto così importante, e apprezzato per le sue qualità, da divenire una preziosa merce di scambio; lo stesso Plinio il Vecchio, contemporaneo di Gesù, arriverà addirittura a scrivere: “Nihil sole et sale utilius”: non c’è nulla di più utile del sole (la luce) e del sale. Era inoltre sinonimo di garanzia, di validità di un patto, di un’alleanza: sulla stretta di mano con si esprimeva il reciproco consenso e si sanciva la legittimità contrattuale, veniva versato un pizzico di sale. Per i Greci, dire di “aver mangiato un moggio di sale”, significava affermare l’esistenza di una amicizia inseparabile con qualcuno. Una simbologia peraltro giunta fino a noi attraverso il vecchio rituale del Battesimo dei bambini, (è stato sostituito dal nuovo Rito nel 1970), che prevedeva la benedizione del “sale della sapienza” e la sua imposizione sulla bocca del battezzando.
Essere allora, come dice Gesù, “il sale della terra”, significa dare sapore, dare gusto, dare il giusto valore alle persone, alla vita, alle cose.
Ma cos’è che dà “sale” alla vita? Ci sono fondamentalmente due elementi che concorrono a ciò. Prima di tutto il “sentimento”: il sano piacere, il bello della vita, il “gusto” della natura, l’amabilità delle persone, delle cose, derivano dalle vibrazioni interne della nostra anima. Più “sentiamo” queste vibrazioni, più siamo sensibili a questi “impulsi” dell’anima, più la nostra vita avrà senso, più sarà significativa, più godrà di un valore aggiunto.
Ma che succede se noi non avvertiamo queste vibrazioni, se le percepiamo poco o nulla? Succede che rischiamo di perdere completamente il senso, il gusto della vita. Non sentiamo più nulla: viviamo come anestetizzati, desensibilizzati. Non disponiamo più del “sale” della gioia, dell’amore, della vitalità, della compassione; nulla più ci commuove, nulla più ci intenerisce.
Per cui, nel grigiore più totale, ci lamentiamo che la vita è noiosa; che la vita è un tran-tran monotono, che è sempre la solita; e trasciniamo i nostri giorni nella cupa rassegnazione, quando invece, nella realtà, la vita è ricchissima di emozioni, di bellezza, di amore. Siamo noi purtroppo che non le sentiamo. Succede un po’ come quando indossiamo gli auricolari del cellulare: ci isoliamo, intorno a noi cala il silenzio, non sentiamo più nulla; i rumori, i suoni della vita, la voce di chi ci rivolge la parola, diventano impercettibili: siamo tagliati fuori dalla realtà, dalla vita. Cosa fare allora? Dobbiamo toglierci le cuffiette! Per sentire la “vita”, il sapore di ogni cosa, dobbiamo toglierci i tappi che ci siamo messi, magari in un momento particolarmente difficile, problematico, doloroso. All’inizio forse sentiremo un gran dolore (è proprio per non sentirlo che ci siamo messi i tappi), ma se avremo pazienza e volontà, piano piano, risentiremo tutto il gusto della vita, l’armonia del creato, l’importanza delle persone.
L’altro elemento che ci ridà “sale”, che ci restituisce il gusto di vivere, è il “sentirsi utili”.
Accade spesso, purtroppo, che tanta gente si chieda con angoscia: “Che vivo a fare? A che serve questa mia vita? ”. Non hanno prospettive, non guardano lontano: vivono schiavizzati dalle problematiche del presente. Magari buone, come “servendo” i figli: certo, far crescere una vita li fa sentire senz’altro utili, importanti, li fa sentire qualcuno; è insomma una gran cosa; ma poi, quando i figli crescono e se ne vanno di casa per vivere la loro vita, si sentono inutili, isolati, si abbandonano a loro stessi, cadono in depressione. Come pure altre persone che si sentono insostituibili al lavoro: quando ad un certo punto vengono “scaricati”, vivono un trauma profondo, un autentico fallimento. Ci sono poi persone che hanno l’assoluta necessità di sentirsi attive, “utili”, importanti, insostituibili, tanto da arrivare ad odiare i superiori che non riconoscono il loro talento, la loro genialità, dimenticando di coinvolgerle nelle varie iniziative (quante volte succede anche negli ambienti religiosi, nelle parrocchie!); allora si sentono non valorizzate, accantonate, abbandonate, inutili.
Attenzione però: perché nell’uomo c’è anche un sano bisogno di essere considerato, di essere visto, di esserci per qualcuno, di “sentirsi utile” che lo porta a combattere, a darsi da fare, un bisogno che non si ferma di fronte alle difficoltà. È il bisogno di essere “sale”, di offrire cioè un servizio al prossimo, ai fratelli, all’umanità: e ciò si realizza non con l’isolamento, non con l’invidia, non con la bramosia di gloria e onorificenze, ma con un vivere in positivo, un vivere che produca “vita”, evoluzione, benessere, amore, crescita. È quando sentiamo nascere dentro di noi qualcosa di importante, come una “chiamata”, una passione particolare, sentiamo di avere dentro di noi dei doni, dei talenti che possono essere utili a questo mondo: allora ci rendiamo umilmente disponibili, ci offriamo, ci doniamo. In una parola siamo “sale”.
“Voi siete il sale della terra”. La terra è la vita di tutti i giorni: essere sale della terra vuol dire quindi aiutare le persone a dare un senso, il loro senso, alla vita, a tutto ciò che accade intorno a loro. Dobbiamo aiutarle a pensare che le cose non accadono per caso. Dobbiamo farli riflettere su ciò che vivono, a porsi delle domande, ad ascoltare la voce di Dio che parla in continuazione attraverso la storia, attraverso i fatti, gli eventi, gli incontri, di ogni giorno. A quanti si chiedono ancora: “Dio? Ma chi è Dio? Dov’è Dio?”, pensando che Lui se ne stia altrove a farsi i fatti suoi, dobbiamo dimostrare con la nostra vita che Lui c’è, è presente al nostro fianco, ci parla, ci educa continuamente, ogni giorno; ci dona la sua “sapienza”. La parola “sapienza”, che viene dal latino “sàpere”, vuol dire appunto “avere sapore”. Solo con Lui noi diventiamo saggi, sapienti, solo con Lui noi “gustiamo” la vita, e imparando dalle nostre esperienze, diventiamo “sale” per il prossimo.
L’altra immagine proposta dal vangelo di oggi è la “luce”: “Voi siete la luce del mondo!”.
La luce, la lampada ad olio, per una povera casa palestinese era tutto. Per noi moderni invece la luce ha perso la sua eccezionalità. Parole come quelle del Salmo 118: “Lampada ai miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino”, hanno perso il loro fascino; per noi la luce non è una cosa rara, ce l’abbiamo sempre a portata di mano, a disposizione. Basta un pulsante per accenderla! Non così ai tempi di Gesù: anche una luce fioca, una piccola lampada ad olio, erano fondamentali.
Non dimentichiamo inoltre che “Dio”, in lingua sanscrita, vuol dire proprio “luce”. Una luce abbinata da sempre alla vita: “venire alla luce”, “dare alla luce”, significa “nascere”; spegnere la luce, “morire”.
In pratica, allora, cosa vuol dire Gesù con “voi siete la luce del mondo”?
“Luce del mondo” una volta era Gerusalemme; di lei il Profeta Isaia aveva infatti scritto: “Alzati, vestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te. Poiché ecco, le tenebre ricoprono la terra, nebbia fitta avvolge le nazioni; ma su di te risplende il Signore, la sua gloria appare su di te. Cammineranno i popoli alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere” (Is 60,1-3).
Ora però, con Gesù, Gerusalemme ha cessato di essere tale: realtà statiche, come una città, un tempio in muratura, sono state sostituite da nuove realtà dinamiche, vive, palpitanti: i discepoli che Gesù manda in tutto il mondo ad annunciare la buona notizia (Mt 28,20).
Sono loro la nuova “luce del mondo”, sono loro che, al pari di una città costruita sopra un monte, non potranno passare inosservati. In altre parole, chi segue Gesù, chi vive le “beatitudini”, il suo messaggio, chi annuncia il suo Vangelo, in una parola il suo “discepolo”, è automaticamente “luce”: è visibile da tutti, può illuminare tutti.
Che significato avrebbe infatti accendere una lampada e metterla sotto un “moggio”, sotto un recipiente? Una lampada accesa va messa in alto, su un candelabro, perché la sua luce sia godibile da tutti. Tutti cioè, vedendo questa “luce”, vedendo questi discepoli, potranno constatare che è possibile vivere come loro, che è possibile per tutti vivere in maniera diversa, in maniera nuova; tutti potranno rendersi conto che è possibile adottare un altro stile di vita, un altro modo di fare, un modo diverso di sentire, di relazionarsi, di amare.
Ecco perché la fonte della nostra luce devono essere le opere buone. Perché è la nostra vita, il nostro modo di viverla, la luce che gli altri devono ammirare, che gli altri devono imitare; è il nostro buon esempio, la nostra convinzione, il nostro vivere il Vangelo in modo serio e coerente. Gesù in pratica non ci chiede di frequentare università pontificie, non ci chiede di insegnare teologia, non ci chiede di fondare associazioni e gruppi di preghiera, ma ci chiede semplicemente di vivere le sue “beatitudini”, di testimoniare onestamente il suo Vangelo.
Con il nostro vivere “luminoso” dobbiamo in pratica dire a tutti: “Anche tu sei anima, sei spirito, sei emozione, sei divino, sei energia, sei canto, sei luce, sei forza, sei fuoco; anche tu puoi vivere nel Tutto perché il Tutto già risplende in te”. Senza la Sua “Luce”, senza lo Spirito d’Amore, senza una nostra vita in simbiosi con la Vita, non c’è possibilità di salvezza per questo mondo! Amen.



venerdì 27 gennaio 2017

29 Gennaio 2017 – IV Domenica del Tempo Ordinario

«Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,1-12).

Il vangelo di oggi ci propone le “beatitudini”: un condensato di norme comportamentali che Gesù indica come insostituibili per quanti vogliono seguirlo come discepoli.
È la legge definitiva del nuovo corso di vita instaurato da Gesù: una legge però che, nello stile di Dio, non impone “cosa” dobbiamo fare o non fare, ma ci spiega semplicemente “come” dobbiamo essere: quindi non una legge “negativa”, nel senso che “vieta”, ma “propositiva”, nel senso che esorta a fare nostro il nuovo stile di vita improntato sulla carità.
Le beatitudini in pratica ci indicano il percorso che dobbiamo fare se vogliamo raggiungere il massimo delle nostre aspirazioni: “Punta in alto, osa, vola ad alta quota perché per questo sei fatto. Questo è ciò che Dio vuole per te e questa è la tua unica felicità. Tu non immagini neppure le possibilità che hai, come puoi vivere, come puoi sentirti soddisfatto e felice! Non immagini neppure la grandezza del tuo cuore, la potenza del tuo amore, la profondità dei tuoi rapporti, dei tuoi sentimenti, delle tue percezioni. Non immagini quanto tu possa sentirti ricco, ricolmo di vita, forte, pur non possedendo nulla”.
Le beatitudini, certo, non ci insegnano a vivere senza contrasti, senza conflitti, perché purtroppo vivere senza tale zavorra è impossibile. Non insegnano a scansare le contrarietà della vita ma ad entrarci dentro, a superarle; non insegnano a sottrarsi al dolore ma ad esprimerlo; non insegnano a fuggire di fronte alla paura ma a guardarla in faccia; non insegnano ad evitare i sentimenti (tutti!) ma a viverli.
Non sono una soluzione magica (sarebbe comodo), ma un invito a non aver paura, a fidarci di Dio che ci dice: “Ci sono io”; e di noi: “Tu puoi vivere meglio di come pensi”.
Le beatitudini infatti non inneggiano alla povertà, alla miseria, alla rassegnazione, al pietismo, alla tristezza. Non dicono che la povertà è un bene: la povertà è miseria, ma appartiene realisticamente alla nostra condizione umana. Non dicono che è un bene essere perseguitati: no, è terribile e crudele; chi lo cerca è un masochista, un ammalato! Ma non possiamo neppure vivere pensando di essere sempre bene accetti da tutti. Non dicono che piangere sia bello: no, è e sarà sempre doloroso. Solo che piangere ci trasforma, ci purifica; è il modo naturale di esprimere le nostre sofferenze, i nostri dolori, le nostre tristezze, i nostri lutti, le nostre perdite. È l’adattamento alla realtà: non è bello, ma è necessario. Non dicono che dobbiamo chiudere gli occhi e subire le malefatte degli uomini: dicono invece che dobbiamo essere misericordiosi, che dobbiamo avere un cuore grande che giudica solo le azioni, i comportamenti umani, non gli uomini. Dicono che gli uomini agiscono così perché sono pieni di paura; per questo diventano aggressivi, violenti, indisponenti. Ciò non significa tuttavia che dobbiamo subire tutto. Quando c’è da dire un “no”, da puntare i piedi contro qualcuno, facciamolo con tutta la nostra forza, tenendo però in considerazione la persona che sta dall’altra parte, commiserandola per la sua situazione.
Le beatitudini dunque non sono dei comandi: “Devi vivere così”. Sono delle proposte: “Tu puoi vivere così!”. Ci offre una possibilità: possiamo sceglierla o meno. Tocca a noi scegliere. Le beatitudini non sono una soluzione ai nostri problemi: “Cosa dobbiamo fare per essere dei bravi cristiani!”, sono un cammino.
Dio dice: “Sii te stesso”. Dobbiamo cioè vivere la nostra vita. La società invece impone la competizione: “vivi imitando i più forti, i più potenti, superali!”. Molte persone si sono adattate talmente agli altri per compiacerli, da perdere se stesse; non ricordano più neppure chi siano. Dobbiamo rimanere noi stessi, perché essere qualcun altro è il fallimento della nostra esistenza. Viviamo la nostra vita: viverne un’altra non potrà mai farci felici.
Dio dice: “A me non devi dimostrare nulla, puoi vivere serenamente la tua vita anche se non hai successo!”. La società invece dice: “Puoi vivere solo se sei ricco, se hai profitti, se sei famoso, se sei bravo”. Per questo molte persone lavorano sempre di più. Non riescono a star ferme, sono sempre in movimento. E giustificano tutta questa loro iperattività come “agire”, che a seconda  dei casi definiscono come attivismo spirituale, amore per il prossimo, per la casa, per i figli.
Altre persone invece sono convinte di non valere, di non essere poi così importanti, e allora cercano in tutti i modi la visibilità, l’esserci. È come se dicessero: “Con tutto quello che faccio per il prossimo sarò sicuramente un ottimo cristiano, un ottimo padre, un’ottima madre!”. Ma non è quello che facciamo che ci rende bravi cristiani, bravi genitori. È ciò che abbiamo dentro che ci rende tali. Dio non ci ama perché facciamo tanto. Dio ci ama perché siamo noi, perché siamo tornati ad essere sua somiglianza. Tutto quello che facciamo esteriormente, non ci rende più belli o più graditi ai suoi occhi.
Le beatitudini dicono: “Dio non te lo devi conquistare. È già tuo”. “L’amore non te lo devi comprare; hai già il Suo”. E che pace, che distensione è sapere che c’è un amore assolutamente sicuro che ci aspetta alla fine del nostro percorso!
Dio dice: “Ciò che senti è tuo, ti appartiene, sei tu. Non mentirti, ma accogliti, accetta ciò che vive in te”. La nostra cultura dice invece: “No, non rivelare mai i tuoi sentimenti, soprattutto quelli più personali e profondi”.
Molte persone hanno imparato che non è bello farsi vedere deboli: chi è forte non piange mai. E per essere forti hanno eliminato il pianto. Ma ciò non li rende affatto uomini forti, ma solo persone insensibili, rigide e gelide come il marmo. Il pianto è una reazione spontanea a qualcosa che ci ha rattristati, che ci ha feriti, che ci ha addolorati. Smettere di piangere non ci rende meno tristi, ci impedisce solo di esprimerlo. Tensione e dolore rimangono forzatamente dentro di noi, nascondendo la verità: facciamo credere che tutto vada bene, quando invece dentro di noi siamo profondamente scossi.
Al contrario molte persone credono che arrabbiarsi sia male. Nossignori: è normale arrabbiarsi, è normale andare in collera, è normale, a volte, essere furenti e pieni di odio. Ogni volta che veniamo feriti nella nostra dignità, è normale per noi arrabbiarci. E una volta che siamo arrabbiati, dobbiamo accettare di esserlo, perché vuol dire che una ragione c’è: solo così possiamo iniziare a gestire la nostra rabbia e a buttarla fuori.
Molte persone, poi, hanno imparato a non aver mai paura. Così sono convinti di non aver paura di nulla; ma aver paura è normale nella vita: l’importante è non farsi bloccare, non aver paura di aver paura. Non dobbiamo nascondere la paura dietro una maschera allegra o sorridente. Non dobbiamo resistere alla paura con tutte le nostre forze, la paura ci appartiene. Ci dice che ciò che stiamo facendo ci costa, ci mette in gioco, è qualcosa d’importante; sappiamo però di essere noi i più forti.
Altre persone infine si vergognano di come vivono, di ciò che provano. Ma le beatitudini dicono che Dio ha un cuore talmente grande da contenere ogni cosa; Lui non ha paura di ciò che a noi fa paura o di ciò che ci fa sentire in colpa; la nostra dignità (siamo figli di Dio e della Vita) rimane intatta qualunque cosa facciamo. Dobbiamo solo comunicare con Lui, condividendo ciò che proviamo. Non dobbiamo nascondergli nulla perché Lui è Accoglienza, perché Lui non prova vergogna delle nostre “vergogne”, perché Lui ama anche ciò che noi non riusciamo ad amare. E quando non avremo più nulla da nascondere, allora ai suoi occhi saremo finalmente liberi e liberati.
«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
Già questa prima beatitudine le racchiude tutte.
Il “povero” è colui che è vuoto, rannicchiato, mendicante, bisognoso. Il peccato, allora, per Gesù è bastare a se stessi, credere di essere a posto, di non aver più bisogno di imparare nulla, di sapere più o meno tutto, di non aver bisogno degli altri e di Dio.
“Povero” qui significa uno che vive distaccato dalle cose, totalmente immerso in esse, ma senza aggrapparsi ad esse.
Pensiamo ad una cosa e diciamole: “Tu sei mia”. A che cosa possiamo dire: “Tu sei mia!”? Il marito, la moglie, sono nostri? I figli sono nostri? La vita è nostra? No, neppure la vita è nostra. Non ci sembra allora di essere i poveri più poveri? Non possediamo nulla, nemmeno la vita!
La povertà, l’essere nulla (diverso dall’essere niente) è la vocazione dell’uomo. Essere umani è vivere questa verità. Questo è il grande segreto della vita: chi non ha niente, ha tutto. Chi non si attacca a nulla può vivere tutto.
Quando si ama, ad esempio, la paura di perdere l’altro ci può distruggere. Iniziamo a temere che qualcuno ce lo sottragga, diventiamo gelosi e iniziamo a controllarlo. Iniziamo a temere che l’amore finisca o cambi, e leggiamo ogni situazione alla luce di questa paura, vedendo non la realtà, ma ciò che i nostri occhi vogliono vedere. Iniziamo a volerlo trattenere, ad aver paura quando esce di casa, a proteggerlo troppo, a sentirci soli quando non c’è. Iniziamo a pensare a quando non ci sarà più, a come sarà la nostra vita senza di lui, e se potremmo vivere ancora. Se poi si insinua il dubbio che l’altro non ci ami più, allora è la fine. La verità, in ogni caso, è che prima o poi, nella nostra vita, quest’amore lo perderemo in ogni caso. È la realtà! Ma se riusciamo a vincere questa paura, se ce ne liberiamo, possiamo amare con tutta la forza della nostra anima e con tutto il sentimento del nostro cuore, senza calcoli, senza riserve, senza paure, senza eccessivi attaccamenti, senza possederlo.
Ringraziamo Dio di ciò che viviamo e se le cose un giorno cambieranno, le affronteremo con la pienezza dell’oggi, che diventerà la nostra forza per il domani.
La prima beatitudine, dunque, dice la grande verità della vita: Dio è tutto, il resto è niente. Dove ci appoggiamo? Su cosa possiamo davvero fidaci? Sulle cose? Passano tutte, tutte si usurano. Sulla gloria? Forse rimarrà un nome, ma noi non ci saremo più. Sulle persone? Non ci salvano.
Qual è l’unica cosa che tiene? Qual è l’unica cosa a cui ci possiamo appoggiare, agganciare, per non cadere nel vuoto?
Nella lingua ebraica “zerà”, oltre a “zero, niente”, significa anche “seme”. Ebbene, noi siamo “zero, nulla”, siamo vuoti, poveri di tutto, mendicanti. Ma nel nostro essere “niente”, è nascosto, come in un “seme”, il nostro essere tutto.
Nel nostro niente c’è il Tutto. Nella nostra povertà c’è la Ricchezza. E più noi ci spogliamo, smettendo di confidare in noi stessi, più possiamo metterci nelle mani di Dio ed essere al sicuro.

Perché quando non avremo più nulla, è allora che avremo il Tutto. E quando saremo spogli di ogni cosa, è allora che saremo rivestiti di eternità. E quando tutto morirà, allora ci sarà la Vita. E quando tutto alla fine cadrà, allora per noi sarà l’Inizio. Amen.



giovedì 19 gennaio 2017

22 Gennaio 2017 – III Domenica del Tempo Ordinario

«Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino. 
Mentre camminava lungo il mare di Galilea, vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. E disse loro: Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini». (Mt 4,12-23).

Il vangelo di oggi ci presenta l’inizio dell’attività pastorale di Gesù.
Il Battista è stato arrestato e la situazione si fa pericolosa anche per Lui. Pertanto Egli “scappa” verso il Nord, in Galilea; lascia Nazaret, la sua città, e si porta in Cafarnao, “sulla riva del mare”. È strano che città come Nazaret e Cafarnao nell’Antico Testamento siano completamente sconosciute, anche se Cafarnao, in particolare, fosse una città molto importante, una città di frontiera. Matteo la colloca “sulla riva del mare”: in realtà non si tratta del mare ma del lago di Genezareth o di Tiberiade. Ma perché l’evangelista parla di mare quando sa benissimo che è un lago? Perché Matteo vuol dare qui una spiegazione teologica: il mare era quello che separava Israele dalle terre pagane ma soprattutto era quello che il popolo d’Israele aveva attraversato per fuggire dalla schiavitù egiziana. Era sinonimo quindi di piena liberazione: per Matteo, quindi, Gesù rappresenta il nuovo Mosè, venuto a liberare il suo popolo.
Inoltre: perché Gesù dalle rive del Giordano, invece di scendere in Giudea, terra eletta, abitata dalla nobiltà sacerdotale, sede del Tempio, sale in Galilea, regione “delle genti”, popolato da poveracci, bifolchi, gente violenta, gente cordialmente disprezzata dai ricchi Giudei? Semplice: perché si compisse quanto anticipato da Isaia: gli abitanti che abitavano nelle tenebre, nella “terra di Zabulon e di Neftali, sulla via del mare, oltre il Giordano”, regione di morte, sarebbero stati i primi testimoni del sorgere di una “grande luce”: e Matteo vede in ciò il compimento della promessa messianica di Israele (Is 8,23): Gesù, in quella terra “maledetta”, è dunque questa “nuova luce” sorta per illuminare il mondo.
È pertanto da qui che Gesù inizia la sua attività: “cominciò a predicare e a dire: Convertitevi perché il regno dei cieli è vicino”.
Il verbo usato qui da Matteo è categorico: “metanoèo”; per seguire Gesù, per accoglierlo, è necessario “convertirsi”, nel senso di “cambiare radicalmente mentalità” (“shub” in ebraico vuol dire “cambiare direzione”, fare una inversione ad “U”); in pratica, bisogna che tutti cambino il loro modo di “pensare” (noèo): la mente, nell’antichità, era considerata la sede non solo del pensare ma anche dell’agire. Quindi Gesù non si limita qui a chiedere un semplice “ritorno religioso a Dio” (= avrebbe usato “epi-strepho”), ma pretende un coinvolgimento concreto, operativo, dell’intera persona: un cambio di mentalità totale che incide, che trasforma, che impone al nostro comportamento un radicale “dietro-front”.
Questo perché con Gesù non è più sufficiente “tornare verso Dio”, ma è necessario “accogliere” questo Dio, e andare con Lui e come Lui, andare verso gli altri: in una parola dobbiamo impostare diversamente la nostra esistenza, quell’esistenza che noi incentriamo normalmente su noi stessi.
Poiché è la nostra mente, sono i nostri pensieri, la nostra volontà, che determinano le nostre azioni, le nostre emozioni, dobbiamo essere radicali: dobbiamo cioè iniziare la nostra “conversione” proprio dalla base: analizzando questi nostri pensieri, e sostituendo, cambiando, estirpando quelli che producono male, che generano sofferenza. Molti dei nostri pensieri sono dei veri e propri “virus” per la nostra vita; oltre che indurci al male, creano poi dolore, paure, sensi di colpa, angoscia: “Come sono arrivato a questo? Piacerò ancora? E se continuassi a sbagliare? Se deludessi ancora tutti? Sono un disastro! Non ho più futuro! Non sono capace a rialzarmi! Non cambierò mai! La mia vita è inutile!”.
Come potremmo vivere una nuova vita continuando a lasciarci dominare da questi tarli che ci rodono l’anima? È intraprendere una nuova vita che è difficile, oppure sono i nostri pensieri che la rendono tale? Perché se sono i nostri pensieri noi non saremo mai in pace con noi stessi, di qualunque genere siano le nostre decisioni, qualunque sia la nostra scelta di vita!
Allora perché dobbiamo proprio convertirci? Se questo ci procura tanto lavoro e sofferenza, perché dobbiamo proprio farlo? Il motivo è chiaro: “Il regno dei cieli è vicino” (Mt 4,17). Ma cosa intende Matteo con il “regno dei cieli”? È un’espressione che troviamo soltanto nel suo Vangelo e indica semplicemente il “regno di Dio”. Un regno che non è fatto per dominare, sottomettere, conquistare, ma un regno in cui Gesù si prende cura dei più poveri, degli afflitti, dei miserabili, di coloro che hanno bisogno di tutto. Non è più un regno di questo mondo, dove il re di turno chiede, domanda, pretende, obbliga, impone leggi, sanzioni e tasse; ma è un regno specialissimo in cui Cristo, il Re, si offre, si dona, si prende cura.
E per servire, per attuare, per realizzare, per operare in questo regno, Gesù ha bisogno di collaboratori: ecco perché questo regno è “vicino” a noi: perché aspetta la nostra adesione, perche aspetta che anche noi ci mettiamo al suo servizio; e per farlo dobbiamo come condizione prioritaria ed essenziale abbandonare la nostra vecchia mentalità, e accogliere, rivestirci, della nuova mentalità di Cristo, descritta da Lui nelle beatitudini e nel suo Vangelo.
Per questo, mentre cammina “lungo il mare di Galilea”, visti due fratelli, due poveri pescatori, li chiama dicendo loro: “Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini”.
È interessante come Gesù per iniziare la sua comunità non vada in cerca di monaci come gli esseni, di persone pie come i farisei, di appartenenti al clero come i sacerdoti, di benestanti e potenti come i sadducei, e tanto meno di teologi come gli scribi, ma preferisca gente povera, normale. Sono gli umili che capiscono subito l’importanza della chiamata. Sono essi che accettano di slancio la difficile missione di offrirsi, di annunciare, di portare un messaggio di gioia, di vita e di speranza. “Venite dietro a me”, dice Gesù: Egli è il nostro riferimento, Lui va avanti e noi dietro: Lui ha bisogno di noi, noi dobbiamo seguirlo. Senza velleità di primeggiare, di ottenere riconoscimenti, ma solo dimostrandogli tutta la nostra disponibilità, la nostra buona volontà, la nostra “nuova” mentalità: perché solo così la nostra risposta al suo invito sarà sincera, leale, efficiente.
Dio ha stima di noi. Dio ha più fiducia in noi di noi stessi, perché ci conosce meglio di noi. Noi abbiamo paura, ma lui, al contrario, ha fiducia, ha stima di noi. Sa cosa possiamo fare. Conosce la grandezza a cui possiamo giungere, se ci manteniamo umili. Gesù infatti non dice: “Venite dietro di me e vi farò maestri di spiritualità, vi farò diventare santi, vi farò diventare asceti”. Ma semplicemente: “Venite dietro a me, vi farò capaci di togliere le persone dalla morte per ridare loro la vita”.
“Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono”: la fede non è una produzione di preghiere, di salmi, di concetti religiosi. La fede è andare. Dio ci chiama (chiamata) e noi siamo chiamati a rispondere (respondeo: da cui responsabilità!).
Il rapporto chi si instaura tra noi è immediato, sequenziale: c’è la Sua chiamata (vocatio, vocazione), un qualcosa che ci tocca, che ci interpella, che dice al nostro cuore: “Io voglio te, proprio te!” e c’è una nostra risposta vincolante; una risposta che, a vederla con la mentalità del mondo, è sicuramente una “pazzia”. Sì, perché la chiamata significa “andare”: significa avere fede incrollabile in Lui, lasciarsi coinvolgere, mettersi completamente in gioco, uscire dal proprio “ego”, dal proprio modo di pensare, dal nostro “egotismo”: è questa la “pazzia” dei santi.
Molte persone si chiedono: “Ma qual è in concreto la mia chiamata? Cosa devo fare nella vita per rispondere alla mia vocazione?”. Certo, è una domanda che dobbiamo sicuramente porci, è una fase di discernimento che dobbiamo affrontare: a condizione però che non sia un modo per sfuggire al nostro coinvolgimento, al procrastinare “sine die” un nostro impegno: aspettiamo la “grande” chiamata e intanto trascuriamo le “piccole” chiamate di ogni giorno.
Del resto per deciderci subito basta guardarsi attorno: quanto bisogno c’è di gente che si impegni, che lotti per un mondo meno corrotto, più vero; quanto bisogno c’è di persone che si schierino per l’umanità, che credano in qualcosa che vada oltre il denaro e l’approvazione umana; quanto bisogno c’è di persone che credano nell’uomo per costruire un mondo nuovo e diverso; quanto bisogno c’è di persone profonde che sappiano dialogare, senza indietreggiare di fronte alle contrarietà, senza scendere a compromessi con le nuove “culture”, con il pensiero laico dominante. C’è bisogno insomma di persone appassionate dell’anima, della fede e del profondo; c’è bisogno di persone che ascoltino il dolore e la sofferenza di tanti fratelli che vivono vittime di dinamiche malsane e opprimenti.
Chi deve andare? Sono gli altri che devono muoversi? E noi? Purtroppo gran parte della gente, molto brava nell’arte dello “scaricabarile”, pensa sempre che tocchi a qualcun altro.
Ma è fin troppo comodo pensare che la chiamata di Dio, la vocazione, sia un fatto elitario, riservato soltanto ai preti e alle suore. Certamente quella è la “loro” chiamata: ma Dio non chiama solo alcuni, Dio chiama tutti.
Nel vangelo la chiamata non è mai un fatto privato: è singolare, unica, personale, è vero; ma nel senso che ogni singola persona riceve la sua chiamata specifica, diversa dalle altre per modalità, per competenze e per ruoli. Ma ogni chiamata di Dio ha sempre una dimensione comunitaria, sociale.
Dio non è un qualcosa di privato, di esclusivo, da godere e vivere da soli nella nostra stanza, nel nostro cuore, isolandoci da tutti. Se ci riduciamo a vivere in questo modo, allora la nostra fede implode, diventa squilibrio, alienazione. Fede al contrario è agire, muoversi, andare; è azione verso i fratelli. Agire significa far emergere, portar fuori l’energia, il fuoco, la passione che abbiamo dentro, per vivere e far vivere in pieno la Vita; significa voler trasformare il mondo e la società, significa desiderio e impegno di lotta contro il male che ingabbia l’Amore: se la nostra fede non è così, abbiamo fallito il nostro mandato, la nostra vita rimane vuota, solo frivolezze e vanità.
Gesù ha mandato gli apostoli (e poi noi cristiani) a portare il vangelo per il mondo: un vangelo che è all’opposto di ciò che pensa e vive il mondo. Perciò dobbiamo cambiarlo questo mondo, dobbiamo “convertirlo”, rinnovarlo, renderlo diverso, riportarlo a nuovo. Per questo siamo stati chiamati, per questo siamo stati scelti. Per questo, seguendo il nostro cuore, dobbiamo vivere la nostra “chiamata” con carità, compassione, tenerezza, elasticità, adattamento, sorriso, umanità. E soprattutto con fede: perché solo dimostrando con i fatti di vivere la nostra fede, di credere convintamente in Dio, potremo “convertire” anche gli altri. Amen.



venerdì 13 gennaio 2017

15 Gennaio 2017 – II Domenica del Tempo Ordinario

“Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!” (Gv 1,29-34).

Il vangelo di oggi ci ripropone la figura di Giovanni Battista: soltanto che mentre nel racconto degli altri evangelisti ci viene descritto come colui che battezza Gesù, nel vangelo di Giovanni egli appare come un osservatore estraneo, uno che, convinto da certi “segni”, offre una importante “testimonianza” a favore di Gesù e della sua missione divina. Qui la “discussione” tra il Battista e Gesù sull’opportunità del battesimo di quest’ultimo, scompare del tutto. Le distanze tra i due vengono azzerate; il Battista, di fronte alla rivelazione dello Spirito di Dio che scende sul Figlio in forma di colomba, capisce e rende pubblica testimonianza su Gesù, rivelando chi egli sia realmente. E dice: “E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio”. Egli ha visto personalmente, è un testimone oculare diretto, egli ha tutti i titoli per poter testimoniare la verità.
Noi invece parliamo troppo spesso per sentito dire. Parliamo senza avere elementi per poterlo fare con cognizione di causa. Soprattutto quando discutiamo di Dio. Cosa ne sappiamo noi di Dio? Cosa abbiamo concretamente “visto” di Lui? Lo abbiamo forse sperimentato nella nostra vita, nel nostro intimo? No? E allora come possiamo parlare con tanta presunzione se non lo abbiamo visto, non lo abbiamo sentito, non abbiamo capito nulla di lui? Se Dio non ci ha resi diversi, nuovi, più profondi, più liberi, più veri, se non ci ha “guariti” dentro, se non ha toccato il nostro cuore, come possiamo affermare di conoscerlo?
Oggi tutti parlano di Dio, scrivono di Dio, discutono di Dio; ma lo fanno tutti in maniera superficiale, parlano a vanvera, ripetono meccanicamente il sentito dire da sedicenti esperti, da studiosi dai nomi altisonanti, sempre pronti ad esibirsi in nuove stravaganti teorie, ma che di incontrarlo personalmente non vogliono neppure sentirne parlare!
Finiamo così troppo spesso col ridurre Dio ad una semplice dottrina, a dei catechismi da imparare, a dei dogmi da credere, a delle regole da osservare. Ma Dio non è questo: Dio è Amore; è un “incontro” privato, intimo; un incontro con l’anima, col cuore; è vita condivisa, è amore donato, è gioia trasmessa.
Solo se lo abbiamo “incontrato” così, solo se cerchiamo in tutti i modi di incontrarlo per questa via, possiamo affermare seriamente che Egli esiste: altrimenti no!
Allora la domanda: “Tu conosci Dio? Credi in Dio?” è una domanda mal posta; la domanda corretta è: “Hai incontrato Dio? Cos’ha fatto lui per te? Come ti ha dimostrato il suo Amore? Cos’hai fatto tu per Lui? Come hai percepito la sua presenza in te? Come è nato in te il bisogno di parlargli, di conoscerlo, di affidarti a lui?”. Perché solo se abbiamo esperienze dirette, un rapporto personale con Lui, possiamo anche noi come il Battista rendergli testimonianza: dobbiamo prima “vederlo”, “provarlo”, “toccarlo”. Solo allora potremo anche averne una pallida idea: ma solo allora ci renderemo anche conto di non saperne mai abbastanza.
“Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!”, grida dunque il Battista alle folle presenti. È la sua testimonianza nei confronti di Gesù; una testimonianza che costituisce il centro del vangelo di oggi, sulla quale vale la pena soffermarci, anche perché sono parole che noi conosciamo bene, poiché le ripetiamo durante la santa Messa, probabilmente senza comprenderne il più ampio e profondo significato.
Ebbene: cosa voleva dire Giovanni in concreto, paragonando Gesù ad un “agnello”?
C’è da dire prima di tutto che gli ebrei erano un popolo nomade, allevatori di bestiame, e quindi esperti conoscitori di agnelli, pecore e capre. Conoscevano bene la Scrittura, in particolare quei passi che parlavano di agnelli offerti in sacrificio. Conoscevano l’agnello che ogni anno a Pasqua essi immolavano per ricordare l’uscita del loro popolo dall’Egitto. Conoscevano il capro espiatorio: quel capro che nel giorno dell’Espiazione (Yom Kippur) veniva caricato simbolicamente di tutte le colpe del popolo e mandato a morire nel deserto.
Ma soprattutto conoscevano il famoso, emblematico episodio di Abramo.
A cento anni Dio gli aveva finalmente concesso il figlio da sua moglie Sara, un figlio atteso per tutta la vita, un figlio che per lui costituiva la cosa in assoluto più cara, più preziosa al mondo. Non dimentichiamo che per un ebreo la discendenza, l’avere un figlio, era la cosa più importante; voleva dire: “anche se un giorno morirò, io continuerò a vivere per sempre in te, nei tuoi figli, nei figli dei tuoi figli…”.
Ebbene, cosa è successo ad Abramo? Un giorno, improvvisamente, Dio gli chiede di offrire questo suo figlio in olocausto. Possiamo capire la disperazione, l’angoscia, il dolore mortale che egli dovette affrontare. Solo dopo aver “provato” la sua fede, la sua sottomissione, la sua totale obbedienza, Dio lo risparmia, chiedendogli di immolare, al posto del figlio, un agnello.
Gli ebrei sapevano quindi molto bene a cosa volesse alludere Giovanni parlando dell’agnello: una vita dolce e mansueta che costituiva la vittima sacrificale più gradita a Dio. Gesù, dice dunque Giovanni, è l’agnello sacrificale, è la vittima che sarà offerta a Dio a riscatto dei peccati del mondo.
Inoltre: il monte in cui avvenne il sacrificio di Abramo si chiamava “Moria”: quasi ad indicare che in Abramo c’era qualcosa che doveva morire. In che senso?
Nel senso che in ogni passaggio di vita siamo costretti a far morire qualcosa. Vivere, crescere, evolvere, diventare discepoli del Signore, vuol dire far morire sempre qualcosa di noi stessi.
Abramo amava troppo quel suo figlio: proprio per questo deve sacrificarlo, perché quel “suo” figlio non è suo, ma del Signore; deve cioè smettere di possederlo, di considerarlo sua proprietà esclusiva, perché quel figlio appartiene solo a Dio. Dura da accettare, ma è la volontà di Dio!
Quante volte, di fronte alle contrarietà della vita, anche noi come Abramo esclamiamo: “Questo non è giusto! Tu Dio mi chiedi troppo! Mi perseguiti, mi stai facendo troppo male!”.
E se questa fosse l’ultima “chiamata” di Dio? Se dovessimo passare proprio di là? Non diciamo allora: “Ma che vita è questa? È uno schifo! Insopportabile, bastarda!”. Diciamo piuttosto: “Signore cosa vuoi dirmi con questa tua lezione di vita? Cosa devo imparare da essa? In cosa devo cambiare, in cosa devo migliorare? È molto faticoso per me, ma eccomi, sia fatta la tua volontà!”.
L’agnello, allora, anche per noi rappresenta il sacrificio; è cioè il dolore che dobbiamo pagare; sono le sofferenze che dobbiamo sopportare per crescere, per evolvere, per diventare spirituali, puri: non a caso la radice ebraica della parola “Abramo” significa proprio “purezza, innocenza.
Nella nostra vita abbiamo sempre paura di fare delle scelte controcorrente? L’agnello è il prezzo della nostra libertà. Abbiamo timore di dire di no agli altri per non offenderli? L’agnello è il prezzo della nostra autonomia. Vogliamo sempre pianificare e decidere tutto? L’agnello è il prezzo della nostra fede.
Nel mondo dello Spirito, ciò che è più grande (l’amore) richiede sempre il prezzo più grande (l’agnello del sacrificio). Ma ciò che richiede il prezzo più grande dona anche la felicità e la pace più grandi.
Ma forse Giovanni, chiamando Gesù l’Agnello di Dio, voleva dire anche un’altra cosa.
Infatti, la parola “taljah”, in ebraico, oltre che agnello vuol dire anche “servo”.
Molto probabilmente allora il Battista, quando parlava di Gesù, intendeva non tanto l’agnello, ma il “servo” di Dio. E qui si sarebbe ampiamente riferito ai “Canti del Servo di Jahweh”, quei quattro meravigliosi canti contenuti nel Deutero Isaia.
Col tempo però i cristiani preferirono leggere nella parola “taljah” il solo significato di “agnello”: d’altronde non era forse vero che la sentenza di morte di Gesù era stata pronunciata il 14 di Nisan, verso mezzogiorno, proprio nell’ora in cui si sgozzavano gli agnelli? Esattamente come è successo con Gesù, che è quindi il nuovo, ultimo e definitivo Agnello, Colui che toglie il peccato dal mondo.
Quando durante l’Eucaristia ripetiamo “Agnello di Dio che togli i peccati del mondo…”, noi vogliamo sicuramente dire: “Dio è morto a causa dei nostri peccati; Dio si è sacrificato per noi”. E ci sentiamo profondamente colpevoli. Ma l’espressione “Agnello di Dio” vuol dire anche e soprattutto un’altra cosa: “Dio è buono come un agnello; Dio non ci farebbe mai del male; Dio è bontà, tenerezza, misericordia”. Dio non è vendicativo, non è geloso, non è violento: Dio non potrà mai volere il nostro male.
In questo senso, noi uomini moderni, per definire la grande bontà, la mansuetudine, la pazienza di Dio, più che ricorrere all’immagine dell’agnello, molto comune nella cultura ebraica, potremmo più plasticamente servirci del termine “abbraccio”. Sì, Dio è un “abbraccio”!
Un abbraccio in cui ci sentiamo assolutamente accolti, accettati, avvolti di bontà, riconosciuti, stimati, amati. Un abbraccio non può far mai paura, a nessuno. Dio è così. Per nessun motivo al mondo lo dobbiamo temere. Lui non ci tradisce, non ci volta le spalle, sta sempre dalla nostra parte, non ci abbandona mai. Il suo è il gesto di uno che ci corre incontro per amarci, per guarirci, per darci tutto ciò che ha; il suo è un abbraccio che offre felicità, che vuole per noi una vita entusiasmante.
Allora andare a fare la Comunione è come andare dalla persona amata: è una gioia, un’attesa ansiosa, un’aspettativa carica di desiderio. Andare a fare la Comunione è come correre tra le braccia della mamma: è lì che sentiamo quanto siamo importanti, quanto valiamo, quanto siamo belli. Andare a fare la comunione è come stare tra le braccia del papà: è lì che ci sentiamo al sicuro.
Dio si è mostrato al mondo come Bambino perché voleva che non avessimo paura di Lui. Se voleva che lo temessimo si sarebbe mostrato forte, potente, gigantesco. Ma che può farci un bambino? Che può farci un agnellino? Che può farci una madre perdutamente innamorata del proprio figlio? Se qualche volta ci mette alle strette, ci da una tirata d’orecchie, è solo perché ci vuole bene, perché vuole che diventiamo grandi, adulti e soprattutto felici. Nel silenzio dell’anima possiamo ascoltare tante sue parole che non hanno voce.
Una storiella racconta che dei feroci banditi, scesi da una montagna altissima, entrarono in un villaggio, lo misero a ferro e fuoco, saccheggiarono tutti i beni, e per assicurarsi la fuga, rapirono un bambino, portandolo con sé nel loro impervio rifugio. Gli uomini migliori del villaggio, per ben due volte provarono in tutti i modi a scalare le alte vette della montagna, ma tornarono vinti dalle difficoltà, dal freddo, dal ghiaccio, dalle tormente di neve. Visti i loro tentativi infruttuosi, la madre del bimbo, disperata, contro il parere di tutti, partì da sola; dopo alcuni giorni, lacera, ferita e stremata, tornò portando in braccio il suo bambino. Increduli, quanti avevano partecipato alle precedenti spedizioni le chiesero: “Ma come hai fatto? Noi in gruppo e ben equipaggiati non ci siamo riusciti, e tu da sola, sì? E lei: “Non era vostro figlio!”.
La potenza di una madre! Ebbene, Dio è come quella madre. Amen.


giovedì 5 gennaio 2017

8 Gennaio 2017 – Battesimo del Signore

«Gesù dalla Galilea venne al Giordano da Giovanni, per farsi battezzare da lui» (Mt 3,13-17).

Con la festività di oggi, il Battesimo di Gesù, si conclude il tempo liturgico del Natale. Domenica prossima entreremo nel Tempo Ordinario che ci porterà fino alla Quaresima.
Oggi il vangelo di Matteo annuncia che Gesù, partito dalla Galilea, raggiunge Giovanni Battista sul fiume Giordano, nel deserto e, come tutti gli altri, si fa battezzare da lui.
Ma per quale motivo Gesù va a farsi battezzare? Non certo in quanto peccatore, bisognoso di conversione. Lo fa invece per essere fedele in tutto alla volontà del Padre. Inoltre, tra il suo battesimo e quello della gente c’è una differenza sostanziale: infatti se entrambi richiamano in qualche modo l’idea di “morte”, quello dei comuni mortali implica il morire sia alla loro vita passata che a quella presente; il loro morire è propedeutico ad una nuova vita; per Gesù invece il battesimo annuncia e simboleggia la sua morte futura, una morte non simbolica ma reale: scendendo nelle acque del Giordano, egli abbraccia e accetta il suo destino di morte, il suo atto sacrificale estremo offerto al Padre per la nostra salvezza, per dimostrare pienamente al mondo il Suo volto d’Amore.
Il Battista però, che non percepisce questo motivo pilota del comportamento di Gesù, cerca di impedirglielo, e protesta: “Ma come, sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e invece sei tu che vieni da me?”. E Gesù: “Lascia fare per ora, poiché conviene che adempiamo ogni giustizia” (Mt 3,15).
Una risposta ermetica. Cosa intende qui Gesù? Dobbiamo prima di tutto risalire al significato di “giustizia”: questo termine, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, è strettamente collegato al termine “fedeltà”, fedeltà all’Alleanza: era “giusto”, praticava la “giustizia”, l’uomo che era fedele a Dio, al patto di Alleanza che Egli aveva sancito con il suo popolo e, attraverso di esso, con l’intera umanità. Se Dio dal canto suo è sempre “giusto”, perché la sua “fedeltà” alle promesse fatte è eterna, non così è per l’uomo: a lui capita molto spesso e con estrema disinvoltura, di venir meno alla “giustizia”, di tradire cioè qualunque impegno preso con Dio. La qualifica di “giusto” di “operatore di giustizia”, allora, gli spetterà soltanto se risulterà fedele ai suoi impegni con Dio. E solo allora.
Questo, in estrema sintesi, è quanto Gesù vuol dire al Battista con le parole “adempiere ogni giustizia”: Gesù, da “giusto” qual è, si sottomette docilmente alla volontà del Padre: Battista, dal canto suo, si deve adeguare, anche se ciò gli scombina il suo “credo”.
A questo punto Matteo, nel descrivere l’adattamento di Giovanni alla volontà di Gesù, dice letteralmente che “egli lo lasciò” (in greco “tote afiesin auton”): sono le identiche parole che egli userà più tardi (Mt 4,11), nel descrivere le tentazioni di Gesù nel deserto: il demonio, visti inutili i suoi tentativi di seduzione, “lo lasciò”: appunto “tote afiesin auton”. Allora qui Matteo non vuol dire tanto che il Battista “acconsentì” alla richiesta di battezzarlo rivoltagli da Gesù; e neppure che egli “lasciò fare”, come talvolta vengono tradotte in italiano queste parole: che cioè il Battista, pur non essendo d’accordo, avrebbe “lasciato correre”, avrebbe “accondisceso” a battezzare Gesù. Matteo qui invece vuol sottolineare che il Battista, deluso dal comportamento di Gesù completamente fuori schema, assolutamente contrario alla sua visione messianica, in pratica lo lasciò, lo abbandonò al suo destino, né più né meno di come farà più tardi il diavolo stesso.
In altre parole, avremmo già qui la prima tentazione di Gesù, ossia un invito pressante rivolto a Gesù (il diavolo in questo caso sarebbe Giovanni), di accantonare la missione salvifica affidatagli dal Padre, per trasformarla in quel ruolo messianico che la gente si aspettava da lui: un Messia storico, cioè, immediatamente riconoscibile da tutti, accolto e acclamato come un coraggioso e vittorioso re davidico, finalmente giunto per condurre il popolo alla riscossa contro gli invasori, seminando tragiche rappresaglie e vendette contro i malvagi, contro i “fuori legge”.
Ma Gesù non si lascia fuorviare dal “maligno”: Egli è esattamente l’opposto; è venuto a portare all’umanità diseredata, la salvezza, l’amore, la misericordia del Padre; Egli combatterà durante la sua missione terrena; combatterà continuamente e coraggiosamente per estirpare dal popolo questa distorta immagine del Messia: perché Lui sarà solo ed esclusivamente un Messia d’amore, un Messia votato al servizio dei più deboli, dei peccatori, .
“Appena battezzato, Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono per lui i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba e venire sopra di lui”; si aprì cioè la “dimora” divina e Dio stesso scese per appoggiare suo Figlio.
Interessante è il verbo “aprirsi” (in greco eneòkthesan) riferito ai cieli, che fa un chiaro riferimento al testo di Isaia: “Se tu squarciassi i cieli e discendessi” (Is 63,19). Perché è interessante? Perché indica un evento di assoluta novità: a quei tempi infatti si credeva che Dio, indignato per i peccati dell’umanità, avesse sigillato la sua dimora (i cieli sono la dimora di Dio), interrompendo ogni comunicazione con il popolo degenere.
Con la venuta di Gesù, questa antica convinzione viene decisamente annullata: i cieli si aprono, si “squarciano” addirittura: una autentica garanzia di salvezza per il futuro, perché d’ora in poi i Cieli rimarranno sempre aperti, al pari di un contenitore la cui chiusura è stata distrutta, “squarciata”. Dio ha smesso di offendersi, di isolarsi da noi: anche se noi continueremo testardamente ad ignorarlo, a tradirlo, Lui non potrà fare altrettanto con noi, la sua misericordia non lo permette; ci rimarrà invece sempre vicino, pronto ad offrirci a piene mani il dono supremo del suo Amore. Sempre.
Oggi Dio, in occasione del battesimo di Gesù, lo rende noto, comprensibile all’umanità intera; fa cioè vedere a tutti, in concreto, chi Egli sia veramente: un Dio Amore, un Dio esclusivamente buono; un Dio ansioso di comunicare, di colloquiare con gli uomini. Un Dio completamente diverso da prima.
Il Dio della religione mosaica diceva infatti: “Hai ucciso: meriti di morire! Hai peccato: non Mi meriti! Hai fatto un tragico errore: considerati indegno di Me, un peccatore imperdonabile: hai tradito la Mia fedeltà; sei fuori dalla mia dimora!”.
Il Dio di Gesù dice invece: “Io sono l’Amore. Sono qui per amarti, anche se tu non vuoi saperne. Non sono qui per terrorizzarti, ma per farti capire che ti amo. Il mio compito è questo. Vuoi permettermelo? Vuoi accettarlo?”. Una verità, questa annunciata oggi da Matteo, confermata anche dal quarto vangelo, quello di Giovanni: “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Gv 3,17).
Allora, come dobbiamo rispondere noi a questa opportunità, a questa offerta di Dio? Semplicemente trasformando il nostro battesimo d’acqua, in battesimo dello Spirito.
Tutti abbiamo ricevuto il battesimo d’acqua: siamo stati cioè “generati”, ci è stata offerta una nuova vita: un dono gratuito ricevuto per i meriti di Cristo. Ma ciò non basta. Non enfatizziamo troppo questo “inizio”: perché il vero battesimo, quello che ci rende veri seguaci di Cristo, è quello successivo, quello di “fuoco”, quello con cui noi rispondiamo con la vita, con i fatti, alla chiamata di Dio: quello cioè, con cui ci rigeneriamo, ci “ricostruiamo”, per ridiventare a sua “immagine e somiglianza”, come Egli ci aveva chiamati ad essere fin dall’inizio. È il battesimo dello Spirito che ci renderà infatti testimoni di una nuova vita, risposta d’amore all’Amore, fedeli fino in fondo a Colui in cui crediamo e che ci “brucia” dentro, che ci appassiona il cuore oltre ogni umana esperienza.
I grandi personaggi della Bibbia hanno sempre confermato la loro chiamata iniziale (battesimo d’acqua) superando cammini tortuosi, prove difficili, viaggi duri, faticosi, durante i quali Dio li ha forgiati e purificati. Noè, per esempio, ha dovuto costruire l’arca tra la derisione e lo scherno generale; Abramo ha dovuto affrontare un lunghissimo viaggio per raggiungere nuove terre, completamente a lui sconosciute e ostili; Mosè ha dovuto guidare il popolo attraverso il Mar Rosso e il deserto, per poter raggiungere la terra promessa; Giobbe e Tobia compirono entrambi dei viaggi molto impegnativi e pericolosi. Gesù stesso si immerge oggi nel Giordano (Giordano, yared, vuol dire appunto “immergersi”) ma soprattutto si immerge in questa umanità inquieta ed irrequieta che, in cambio dei tanti benefici e favori, lo condanna al patibolo: un’umanità che ancora oggi non cessa di rinnegarlo, di rifiutarlo, di ucciderlo.
Gesù dice nel vangelo: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso… Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, la divisione... Non sono venuto a portare la pace ma una spada...”.
Allora smettiamola di pensare o di credere che per essere veri cristiani basti semplicemente l’essere battezzati. Quando i media dicono che il 95% degli italiani sono cristiani, dicono una corbelleria. Sarà la percentuale dei battezzati con l’acqua, ma non dei cristiani battezzati col fuoco dello Spirito.
La gente crede ancora che seguire Gesù sia qualcosa di comodo, di tranquillo e di indolore. Basta qualche pratica, andare alla messa ogni tanto o dire qualche preghiera.
Ma seguire Gesù significa “fuoco”. È quella passione che ci brucia dentro, che non può lasciarci indifferenti di fronte alle ingiustizie, di fronte ad una società edonista che uccide l’anima degli uomini, di fronte a genitori inconsapevoli che portano al battesimo i loro figli come fossero delle graziose marionette o dei burattini con cui divertire la gente.
“Fuoco” è la passione che ci spinge ad uscire, ad esporci, a non stare zitti. Potremmo starcene in disparte e farci gli affari nostri; e, invece no, ci buttiamo nella mischia, rischiando in prima persona.
L’essere cristiani di “fuoco” significa purificarsi interiormente, bruciare tutto ciò che c’è di impuro dentro di noi. Solo così ci accorgeremo che noi, e non gli altri, siamo invidiosi, siamo in rivalità, siamo gelosi. Che noi, e non gli altri, non amiamo; che noi e non gli altri vogliamo possedere, gestire, manipolare. Che noi, e non gli altri, abbiamo assoluta necessità di cambiare, di crescere, di modificare con umiltà la nostra vita.
Non è facile cambiare. Non è per nulla piacevole vedere certe reazioni dentro di noi. Per questo seguire Gesù sarà sempre difficile, impegnativo, un lavoro continuo. Ma sarà entusiasmante, passionale, ardente; ci darà la sensazione di vivere in profondità, ci farà capire che la nostra vita finalmente ha un senso. Amen.