giovedì 19 ottobre 2017

22 Ottobre 2017 – XXIX Domenica del Tempo Ordinario


«Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».
(Mt 22,15-21).

È chiaro che tutto ciò che ruota intorno al tempio di Gerusalemme, non rientra nelle simpatie di Gesù: i personaggi del culto, gli scribi, i farisei, gli anziani del popolo, approfittano infatti della loro posizione per compiere indisturbati i loro loschi affari. Questa élite, che Gesù aveva più volte redarguita pubblicamente definendola più indegna dei pubblicani e delle prostitute, lo considera ormai come il nemico più accanito da combattere, poiché oltre a non rispettare le istituzioni religiose, le scredita continuamente e apertamente in pubblico!
I farisei pertanto si riuniscono per decidere il da farsi: “tennero consiglio per vedere di coglierlo in fallo nei suoi discorsi”. Ormai è guerra aperta. Riescono a coinvolgere nelle loro trame anche gli erodiani, che è tutto dire: i farisei odiavano gli erodiani, li consideravano una feccia schifosa da sterminare; però pur di coronare i loro perversi progetti contro Gesù, si abbassano a chiedere la loro collaborazione. Si tratta di eliminare un nemico comune, e “chiunque odia il mio nemico, diventa mio amico”!
Essi dunque mandano una loro rappresentanza, con un discorsetto già preparato a tavolino: ed iniziano con un elogio esagerato, falso, ostentato, volutamente adulatorio: “Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità e non hai soggezione di nessuno perché non guardi in faccia nessuno”. Gesù però, di fronte a questa “incensata” non si scompone: li conosce molto bene, e con calma chiede loro: “Perché mi tentate?”. Parole forti: nella Scrittura il verbo “tentare” è riservato esclusivamente all’azione malefica di satana, il “tentatore”.
Gli interlocutori non raccolgono tale significato ed entrano subito nel vivo del discorso: vogliono cioè che Gesù si esprima apertamente su un argomento molto spinoso: “Dì a noi: è lecito o no pagare il tributo a Cesare?”. Che praticamente vuol dire: “Devi dirci, qui e ora, ciò che pensi degli invasori romani e delle loro tasse”. La trappola è ben congegnata, poiché qualunque risposta egli dia, gliela ritorceranno contro; dicendo “sì”, infatti, si dichiarerebbe favorevole al pagamento delle tasse, e quindi, riconoscendo l’invasore come “signore” del popolo, incorrerebbe nel reato di infedeltà verso Dio, l’unico “Signore” che gli ebrei devono riconoscere e servire (Dt 6,4-13); se invece dice “no”, si metterebbe automaticamente contro l’autorità romana, decretando personalmente la propria fine, veloce e sicura.
Gesù dunque è incastrato. Se accetta di rispondere alla provocazione, qualunque cosa dica è un perdente. Deve necessariamente capovolgere la situazione. E lo fa signorilmente, ponendo a sua volta una richiesta facile facile: “Mostratemi la moneta del tributo”. Si trattava di una moneta particolare, coniata dai Romani in argento, con incisa l’immagine dell’imperatore e una dicitura che ne decretava la sua “divinità”. Era praticamente il simbolo del potere dominante: dove arrivavano quelle monete, lì arrivava il potere di Roma, il dominio dell’imperatore.
Quelli ovviamente gliela mostrano, e Gesù: “Di chi è questa immagine e l’iscrizione?”. Gli rispondono: “Di Cesare”. E Lui: “Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”.
Cosa vuol dire? Prima di tutto che le tasse vanno sicuramente pagate: le monete di Cesare vanno restituite al loro padrone. Ma c’è dell’altro: “Rendete a Dio quello che è di Dio”. I doveri in pratica sono due: uno nei confronti del potere temporale, politico, l’altro, molto più profondo e mirato, nei confronti di Dio. Gesù, insomma, piuttosto irritato, coglie al volo l’ennesima provocazione maldestra dei suoi nemici per richiamarli all’ordine: “Cari farisei, voi che vi date tanto da fare col popolo, voi che siete la classe dirigente del sacro, voi che vivete all’ombra del tempio, restituite a Dio il popolo che gli appartiene, quel popolo che Lui ha scelto, che Lui ha riscattato, e che solo temporaneamente ha affidato alla vostra guida; quel popolo che Voi invece cercate di soggiogare al vostro volere, inducendolo in errore con regole false, con le vostre ideologie. Cercate di attirarlo predicando un Dio che non è il vero Dio. In pratica subordinate Dio alle vostre teorie, al vostro pensiero, ai vostri personali vantaggi e riconoscimenti: e questo è un oltraggio tremendo nei suoi confronti: il popolo è suo, vostro dovere è solo quello di ricondurlo a Lui”. Parole chiare ed esplicite che, come tutto il Vangelo, ci offrono diversi spunti di meditazione, essendo sempre di grande attualità.
Prima di tutto la domanda: “Di chi è quest’immagine?”.
L’immagine riflette la persona, esprime i particolari, le caratteristiche dell’originale, del padrone: quella di Cesare stabilisce che la moneta viene da lui e quindi gli appartiene.
Ma c’è un’altra “immagine” che ci deve stare particolarmente a cuore: è l’immagine nostra, del nostro “io”. Ciascuno di noi, come dice la Genesi, è stato creato da Dio a sua “immagine” e somiglianza (Gn 1,26): noi pertanto Gli apparteniamo, siamo sua proprietà, a Lui dobbiamo tornare. Dimenticare, perdere, trascurare questa nostra indelebile appartenenza a Dio-Vita, significa vivere una non-vita, significa cadere in una catastrofe, in un dramma senza fine. Qualunque nostro attaccamento, qualunque nostro legame a persone, a cose, a qualunque realtà che non sia Dio, svilisce, deturpa la nostra somiglianza, sfigura la nostra immagine divina rendendoci schiavi, dipendenti, prigionieri; e lontani dalla Sua immagine, non saremo più in grado di amare, di apprezzare la bellezza e la bontà della vita che ci circonda.
Tutto il creato ci parla di Dio, e ci ricorda continuamente che siamo sue creature, plasmate a sua immagine. Ci è mai capitato, per esempio, guardando avvolti in un silenzio tombale il cielo stellato sopra di noi, di ammirare la meraviglia di tutti quei puntini luminosi, di pensare che è da lì che veniamo, ed è lì che un giorno torneremo, di avvertire un richiamo pressante di eternità, di provare una struggente nostalgia della nostra “casa”, di sentire un desiderio angosciante di grandiosità, di infinito, di soprannaturale? O siamo morti dentro? Così pure ci è mai capitato di veder riflettere il sole nel volto e negli occhi delle persone amate? Di ammirare lo sguardo ansioso dei bimbi che cercano il volto della mamma e del papà? Di sentirci pieni, quasi gonfi, di una inspiegabile felicità? Ecco, sono tutti momenti di vicinanza con Dio, con i suoi capolavori: momenti che ci fanno appunto percepire distintamente tutta la nostra dignità di figli, tutta la nostra nobiltà spirituale di essere “immagine” del Padre.
La più grande tragedia che ci possa capitare è salire sul palco della vita, recitare la nostra parte, e dimenticarci, quando abbiamo finito e usciamo di scena, la maschera addosso . È importante che nel nostro intimo, nel nostro cuore, nella nostra anima, ci ripetiamo continuamente: “Io sono di Dio, appartengo solo a Lui, sono suo figlio, un giorno è da Lui che dovrò tornare!”.
Secondo spunto, la risposta di Gesù: “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”. Certamente nel dare questa risposta, Gesù alludeva anche all’aspetto politico: “Dai a Cesare, allo Stato, quello che è di Cesare e dello Stato”: è nostro dovere pagare le tasse; non possiamo essere uomini di fede se evadiamo il fisco, se imbrogliamo la gente, se sfruttiamo i nostri dipendenti, se accumuliamo, mentre gli altri muoiono di fame, se creiamo lobby di potere. Oggi si fa tanto parlare di comunione negata ai divorziati risposati: ma nessuno, dico nessuno dei tanti “alti papaveri” della teologia, ha mai sollevato il problema ben più grave, di negarla anche a quelli che sperperano nel gioco interi patrimoni, gettando sul lastrico e nella disperazione le loro famiglie, per quelli che fanno fallire le aziende per un arricchimento personale indebito, per quelli che colludono con la mafia per ottenere ricchezza e potere, per i pubblici funzionari che si portano a casa milioni di euro in tangenti alla faccia dei contribuenti. Tutta gente che liberamente, pubblicamente e tranquillamente possono accostarsi alla comunione.
Ma la risposta di Gesù contiene un’altra verità, altrettanto essenziale, una verità più universale: oltre che a Cesare e a Dio, noi dobbiamo restituire anche alle persone, alla natura, alle cose che ci circondano, ciò che è loro, che appartiene loro: valore, importanza, dignità. Tutto il creato ha le sue qualità: sta a noi riconoscerle, apprezzarle e restituirle: il verbo greco apo-didomi, significa appunto “restituire, rendere a qualcuno ciò che gli spetta, che gli appartiene, che gli è dovuto”. Per esempio, tra i doni che Dio ci ha concesso in uso, ce n’è uno, il più prezioso in assoluto, che merita tutto il nostro rispetto e la massima cura: la nostra vita! Più gli scienziati studiano l’uomo e più dicono: “Siamo un miracolo!”. Dio ci dona ogni giorno la cosa più grande di questo mondo, il poter dire: “Sono vivo”. Purtroppo per molte persone è un dono così comune, così scontato, che non lo apprezzano, non sanno che farsene di questa vita e di questo tempo che hanno a disposizione, e continuano a lamentarsi con Dio di questo e di quello. Ma noi lo dobbiamo riconoscere, amare, onorare questo dono gratuito che è la vita; la vita non ci è “dovuta”, è solo “dono”: e verrà giorno in cui dovremo riconsegnare nelle mani di Dio questo dono. Finita questa vita non ne abbiamo un’altra di scorta, in cui poter rimediare al tempo perso; quello che non facciamo oggi non lo potremo fare mai più.
Viviamola allora sul serio questa nostra vita, viviamola in pieno, con intensità: abbiamo questa sola per amare, per provare, per sentire, per realizzare la nostra missione, per diventare ciò che dobbiamo essere: immagine del Padre.
Non lasciamoci condizionare dalla paura di sbagliare, dal giudizio della gente, dell’autorità, da tutte quelle paure che ci impediscono di vivere. Siamo positivi, entusiasti: chiudiamo gli occhi, e nel silenzio ripetiamoci: “Voglio vivere: voglio sentire l’odore dei prati, della natura in fiore, il profumo della pelle di chi amo; voglio provare il gusto del cibo, dei frutti della terra; voglio entusiasmarmi, correre, rotolarmi sull’erba, ridere a crepapelle, giocare, accarezzare e abbracciare; voglio piangere quando sto male, sentire e condividere il dolore della gente, commuovermi per la gioia; voglio inseguire un sogno, lottare per un mondo migliore e sentire che questo mio tempo non sta passando invano, che ha un senso meraviglioso per me e per il mondo. Sì, voglio vivere!”. Se arriveremo a tanto, potremo restituire a Dio questa nostra vita “da vivi”: quando moriremo, saremo ancora in vita. Dio ci ha consegnato la vita, noi gli riconsegneremo la vita, in tutta la sua bellezza: non la morte dei rinunciatari, di coloro che si sono spenti per strada, senza provare, senza sognare, senza combattere.
La gente impreca e si lamenta quando le cose belle finiscono; ma non sa ringraziare Dio e viverle intensamente quando ancora ci sono. Non capisce che alla Vita si risponde con la vita, all’Amore si risponde con l’amore. Tutto ci è stato donato per amore: e noi per amore dobbiamo restituirlo. Amen.




giovedì 12 ottobre 2017

15 Ottobre 2017 – XXVIII Domenica del Tempo Ordinario


«Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti» (Mt 22,1-14).

La parabola di oggi è una potente allegoria. Si tratta della stessa parabola che troviamo anche in Luca (14,16-24), decisamente con toni diversi, meno accesi, meno categorici rispetto a Matteo: dobbiamo tener presente però che i due evangelisti riportano il messaggio di Gesù adattandolo alle loro rispettive comunità: così per esempio il semplice “uomo” di Luca, diventa in Matteo un re, (figura che richiama il giudizio universale alla fine dei tempi!); la grande cena del primo diventa nel secondo un banchetto di nozze per il figlio del re (che per Matteo è Gesù: la grande cena diventa pertanto il giudizio per quanti hanno accolto il suo messaggio); Luca manda un solo servo per invitare le persone, mentre Matteo ne manda molti e a più riprese (più volte Israele ha avuto messaggeri di Dio, ma invano); in Luca gli invitati si giustificano a parole, mentre in Matteo arrivano a malmenare e uccidere i servi del re. Perché sottolineare con insistenza tanti particolari? Che senso ha specificare che gli invitati, non solo rifiutano l’invito a nozze, ma picchiano e uccidono addirittura quelli che li invitano? In Luca, al rifiuto dei primi invitati, il padrone allarga semplicemente il suo invito ad altri; Matteo invece ci tiene a sottolineare l’ira terribile del re che, prima ancora di sedere a tavola (la cena è già pronta!), spedisce la sua guardia del corpo per uccidere gli assassini dei suoi servi e per bruciare la loro città. Ma che senso ha compiere tutto questo immediatamente prima di cena? Poteva farlo con tutta calma dopo aver cenato con gli invitati: ma Matteo lo fa proprio perché si riferisce ad ebrei e alla storia di Israele; vuole cioè identificare nei messaggeri del re i profeti e Gesù stesso: inviati da Dio, hanno fatto esattamente quella fine. La punizione pertanto doveva essere immediata, prima del ritorno del re nella “sala delle nozze”. Con quali conseguenze? La città degli invitati “assassini”, Gerusalemme, la città simbolo, deve pagare per i misfatti del popolo giudeo: l’allusione alla sua totale distruzione nel 70 d.C. per mano dei Romani, è evidente. La comunità di Matteo, formata appunto da cristiani provenienti dal giudaismo, deve essere consapevole di tutto questo, deve capire il significato profondo, la portata vitale della loro chiamata, della loro adesione al vangelo.
Il pratica il messaggio di Gesù è questo: “Vi ho fatto un invito e voi non l’avete accolto”. Egli è stato rifiutato dai sapienti, dai religiosi, dagli uomini del Tempio, da quelli cioè che già “avevano Dio”, il loro Dio; la loro immagine di Dio, era talmente radicata e fissa, che non sono riusciti a cambiarla. Allora Gesù si è rivolto ad altri: pubblicani, lontani, donne peccatrici, eretici, senza-Dio, e loro lo hanno accolto.
Non è difficile leggere in questa allegoria, un chiaro messaggio anche per i cristiani d’oggi, in particolare per la nostra storia personale.
Anche noi, come gli invitati della parabola, abbiamo sempre una buona, un’ottima personale giustificazione per rifiutare l’invito di Dio. “Ho poco tempo; lavoro tutto il giorno; devo stare con i miei figli; mi piacerebbe tanto, ma proprio non posso! E poi, prego già tanto Dio per conto mio!”. Tutte risposte che portano ad una considerazione: “Lo vogliamo o non lo vogliamo questo Dio?”. Perché troppo spesso il “non posso” equivale più semplicemente a “non ne ho voglia”.
Eppure nel vangelo ci sono mille dimostrazioni di quanto Dio faccia per noi. Egli in sostanza vuole starci vicino, vuole essere la nostra forza, darci sostegno, non farci sentire soli; vuole perdonarci, vuole amarci, in una parola, vuole che siamo felici: perché allora lo rifiutiamo? È come se uno venisse a dirci: “Ti regalo cento milioni: eccoli qui, prendili!”; noi che facciamo? Non li accettiamo, li rifiutiamo! Perché? Perché siamo troppo orgogliosi, perché pensiamo che quel tale ci stia prendendo in giro; che la tanta bontà e generosità di Dio, preti, chiesa ecc. sia soltanto una solenne fola, un falso; e noi, da persone scaltre quali siamo, non ci caschiamo, non ci fidiamo!
Eppure, quando Gesù parla di Dio, di suo Padre, ne parla sempre come di un padre misericordioso, dal cuore enorme, e ce lo documenta con esempi di vita vissuta: come quel padre che, nonostante suo figlio gli abbia sbattuto la porta in faccia, e stia sperperando nei vizi tutti i suoi beni, la sua stessa vita, rispetta in ogni caso la sua libertà, nell’attesa fiduciosa e trepidante del suo ritorno a casa; e appena lo vede da lontano, gli corre incontro, lo riabbraccia, e organizza una grande festa, per dimostrargli tutto il suo incalcolabile amore, un amore profondo e struggente.
Ma a noi questo non interessa: che Dio ci ami, che sia misericordioso con noi, è una cosa che ci lascia del tutto indifferenti. Preferiamo per assurdo che sia “cattivo”, che ci tratti male, che ci punisca, che ci tiri pure delle sberle, purché se ne stia per conto suo, a casa sua; non gradiamo intrusioni, non vogliamo soprattutto ammettere la sua bontà, perché farlo ci costerebbe troppo, dovremmo quantomeno rivoluzionare la nostra vita dalle fondamenta. Noi vogliamo sentirci “liberi”, indipendenti, autonomi, salvo poi, nel momento del bisogno, nelle disgrazie, nelle malattie, essere noi a pretendere il suo sollecito intervento, quasi ricattandolo, appellandoci proprio a questo suo immenso e indiscusso amore.
Dio è veramente amore! Egli ci ama nonostante tutto. Allora perché lo rifiutiamo? Perché siamo stupidamente orgogliosi; perché non crediamo nella gratuità del suo amore; perché temiamo ritorsioni, ricatti morali, compromessi; perché nel nostro delirio pensiamo che il suo amore unilaterale non possa essere autenticamente disinteressato; perché siamo impastati fin dalla nascita di sospetti, di diffidenza; perché abbiamo innato un modo di vedere le cose completamente sballato. Un esempio? Fin da bambini abbiamo imparato a nostre spese che l’amore si conquista: soltanto eseguendo fedelmente la volontà di papà e mamma, infatti, ci sentivamo amati. In caso contrario: “Sei cattivo; hai fatto arrabbiare il papà! Non ti voglio più bene...”, e quindi urla, distanze fisiche ed emotive, bronci, ecc. Cosa ci è rimasto di tutto questo? Primo, che siamo amati solo se facciamo quello che vogliono gli altri; secondo, che l’amore è sofferenza: per guadagnarcelo dobbiamo faticare, rinunciare ai nostri desideri, ai nostri progetti di vita. Diventati adulti, continuiamo a nutrire questa errata convinzione anche nei confronti di Dio: il suo amore va conquistato; Dio ama soltanto i meritevoli, quelli che soffrono, che faticano, che si impegnano, che si sacrificano per lui. Troppo difficile! E quando sentiamo le parole del vangelo: “Dio ama gratuitamente tutti, buoni e cattivi, vicini e lontani”, non ci crediamo: “Non è vero; siamo certi del contrario; sappiamo per esperienza che ogni amore va meritato: “Ecco, vedi come sono diventato bravo? Vado a messa tutte le domeniche, osservo i tuoi comandamenti; sono perfetto. Ora devi amarmi!”. Ma non è così. L’amore di Dio non si conquista, non si compra, non ha un prezzo da pagare: è assolutamente gratuito; l’amore di Dio è puro dono.
Accettare allora l’invito di Dio, indossare la veste nuziale, rivestirci degli insegnamenti del vangelo, implica da parte nostra un abbandono sincero e totale in Lui, lasciare che lui ci ami teneramente, intensamente, nonostante le nostre schifezze, i nostri errori, il nostro marciume.
Noi abbiamo di Dio un’opinione sbagliata: siamo portati a rappresentarcelo come un terribile nemico, un giudice intransigente: un’idea che la stessa chiesa ci ha trasmesso per anni. Ma dal vangelo risulta esattamente il contrario: Dio è venuto tra noi, si è spogliato della sua divinità, ha indossato la nostra natura umana, e ci ha amati fino a sacrificare la propria vita per noi, per il nostro bene, per la nostra salvezza. E se si aspetta qualche minima risposta da noi, la vuole esclusivamente per il nostro bene, perché ci ama visceralmente. I suoi inviti a seguirlo sono continue, intense esortazioni d’amore, spesso accorate.
Il vangelo ci dice poi che di fronte al rifiuto degli invitati, degli eletti, il re ordina ai suoi ministri di andare per le strade, in ogni angolo, e di chiamare tutti alle nozze, buoni e cattivi, eleganti e straccioni. Lo fa sempre per amore: vuole offrire a tutti la stessa opportunità di quanti hanno rifiutato il suo invito; Egli ama tutti, uno per uno, indistintamente.
Ma allora come mai, quando questo Re entra nella sala del banchetto e vede uno sprovvisto di abito nuziale, ha una reazione tanto feroce? Fa legare mani e piedi a quel malcapitato e ordina che venga gettato fuori, nelle tenebre e nel dolore. Ma non aveva convocato anche gli “straccioni”? È il secondo scatto d’ira che Matteo attribuisce a questo re. E lo fa volutamente. Perché, proiettando questa stessa scena negli ultimi tempi, nel giudizio finale, Matteo vuol far capire ai suoi, che non è sufficiente appartenere in questa vita ad una comunità di credenti, essere “chiesa”, trovarsi tra i “chiamati”, aver accettato l’invito: ciò non offre alcuna garanzia o diritto di entrare e rimanere nel “Regno”. L’unica condizione, valida per tutti, è quella di indossare la “veste nuziale”: perché non indossarla significa aver accettato la chiamata di Dio solo formalmente, per tradizione, perché così fanno tutti, per interesse, per moda, senza alcun personale contributo al grande dono d’amore fatto dal Re: significa avere un cuore arido; significa aver seminato cattiveria piuttosto che amore, significa avere l’anima completamente inadeguata all’offerta d’amore del re: in una parola significa non aver indossato “l’uomo nuovo” del vangelo, trascurando la propria conversione.
Una parabola, quella di oggi, che contrasta decisamente con l’idea, anche questa molto di moda, di un Dio bonaccione, che risolve qualunque situazione assicurando indistintamente a tutti una misericordia finale assoluta, indiscriminata, a costo zero. Nossignori: l’arrogante pretesa del “lei non sa chi sono io” con Dio non funziona: buono, comprensivo, amoroso sicuramente, ma Dio è anche “giusto giudice”.
Dobbiamo fare molta attenzione su questo, perché purtroppo l’uomo “indegno” del vangelo, quello sprovvisto di “veste nuziale” è, anche oggi, in ottima compagnia: quanti di noi infatti si professano cristiani semplicemente perché battezzati, perché hanno accettato a suo tempo l’invito di Dio, senza peraltro preoccuparsi mai di indossare l’abito della coerenza e del servizio! Un giorno, alla chiamata finale, concluso il “tirocinio”, quando il Re ci esaminerà (perché Dio ci giudicherà singolarmente, statene certi, con buona pace dei “sapienti” contemporanei!) dovremo darne conto, e ogni nostro rimpianto, ogni nostra promessa di ravvedimento sarà tardiva, fuori tempo massimo: allora capiremo quanto siamo stati stolti, quanto siamo stati ottusi nel non ascoltare i suoi ripetuti inviti, i suoi continui suggerimenti di Padre amoroso.
Ciò che ci capiterà allora non sarà un caso, non sarà colpa del “giusto e tremendo giudice”, ma sarà la logica conseguenza delle nostre azioni. Eravamo tra i chiamati, i fortunati, i privilegiati, ma non ce n'è importato nulla. Noi, e solo noi, abbiamo volutamente scelto di non vivere da figli, preferendo spenderci nelle soddisfazioni materiali, più comode ed immediate. Ognuno, alla fine, avrà una sentenza coerente e proporzionale al proprio servizio nella carità. E se ci presenteremo da straccioni totali, sprovvisti ancorché della più povera ma dignitosa “veste nuziale” di rito, sappiamo già quel che ci aspetta: ma non è Dio che ci punirà; non è Dio che ci butterà fuori dal “Regno eterno”: siamo noi, noi stessi, che vivendo nell’indifferenza, nell’apatia, nel rifiuto del vangelo (l’abito nuziale), abbiamo fatto di tutto per eliminarci, per distruggerci. Non per niente il vangelo amaramente conclude: “molti sono chiamati, ma pochi eletti”. Amen.


giovedì 5 ottobre 2017

8 Ottobre 2017 – XXVII Domenica del Tempo Ordinario

«C’era un uomo che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano».

C’è dunque un padrone che decide di investire i suoi capitali in maniera proficua anche per gli abitanti del luogo: “pianta una vigna, la circonda con una siepe, vi scava il frantoio, vi costruisce la torre” e poi l’affida a dei vignaioli, a quelli cioè che avrebbero dovuto coltivarla. La cura che il padrone mette nel costruire le infrastrutture ci dimostra quanto egli amasse questo suo terreno, questa sua vigna. Arrivato il tempo della maturazione, egli manda ovviamente “i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto”. E fin qui tutto è nella normalità, tutto secondo le regole e le usanze dell’epoca.
Ma poi succede l’imprevisto. Cosa fanno i vignaioli? Hanno una reazione furiosa, esplosiva: prendono i servi e “uno lo bastonano, uno lo uccidono, uno lo lapidano”. Come mai tanta violenza? che colpa ne hanno questi “colleghi” anch’essi servi dello stesso padrone? Erano semplicemente degli incaricati, dei rappresentanti, dei messaggeri. Ma è proprio l’essere gli “inviati”, le persone che in quel momento rappresentano il padrone, che fa scattare la ribellione nei vignaioli che, con un crescendo di violenza, arriva ad uccidere.
Ciò che risalta immediatamente in questo susseguirsi di eventi è il comportamento illogico, paradossale, sia dei contadini che del padrone. È assurda la reazione dei vignaioli, perché avrebbero dovuto pensare alla inevitabile replica repressiva del padrone. Ma è assurdo anche il comportamento del padrone che continua impassibile, nonostante la violenza subita dai suoi rappresentanti, ad inviarne continuamente di nuovi, non risparmiando, alla fine, nemmeno il suo stesso figlio. È chiaro comunque che se il comportamento finale del padrone è dettato dalla logica dell’amore: “Avranno rispetto per mio figlio!”, il comportamento dei vignaioli è dettato ancor più dall’ostilità e dall’odio: “Uccidiamolo e avremo noi l’eredità”. Un ragionamento da stupidi, perché non hanno tenuto in alcun conto l’immediata e altrettanto violenta rappresaglia del padre, una volta messo di fronte all’uccisione del figlio.
A questo punto Gesù, ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo presenti, pone una domanda a risposta scontata: “Secondo voi, che cosa farà il padrone della vigna a quei vignaioli?”. E loro ovviamente: “li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini”, sottoscrivendo la conseguente, logica, condanna.
Sì, perché è chiaro che il contenuto della parabola riguarda proprio loro, è diretto a Israele e ai suoi capi. A noi i particolari non dicono molto, ma tutti gli ebrei conoscevano perfettamente l’oracolo di Isaia che dice inequivocabilmente: “La vigna del Signore degli eserciti è la casa di Israele; gli abitanti di Giuda, la sua piantagione preferita” (Is 5,1-7). Israele era infatti l’orgoglio, il popolo preferito, la vigna di Dio. E loro erano fieri di esserlo! Per cui chi doveva capire, ha capito perfettamente: “I sommi sacerdoti e i farisei capirono che parlava di loro” (Mt 21,43). E lo capirono molto bene anche perché il testo della parabola affronta lo stesso tema, usa le stesse parole di Isaia: “siepe, frantoio, torre”. La vigna quindi è Israele; il padrone è Dio; i vignaioli sono i capi religiosi; i servi del padrone, infine, sono i profeti. Tutto è chiaro.
Dio (il padrone) ha amato il suo popolo (la vigna) ma questo ha rinnegato il suo amore, ha ignorato i messaggi d’amore dei suoi servi (i profeti): Isaia, Geremia, Ezechiele, e tutti i profeti, non sono stati mai ascoltati. Erano dei messaggeri che richiamavano Israele a convertirsi, a ritornare sulla retta strada, ma non furono ascoltati. Anzi, spesso furono uccisi o lapidati.
E il figlio? Il figlio, è evidente, è Gesù. Dio manda ciò che ha di più caro, di più prezioso: suo figlio. Come a dire: “Più di così, cosa posso fare per voi? Cosa posso dirvi di più perché possiate cambiare?”. Più di così Dio non poteva fare: tenta anche la soluzione estrema, ma tutto è inutile quando uno non vuol capire. E sono loro stessi ad autocondannarsi: il padrone “farà morire miseramente quei malvagi e darà ad altri la vigna”. E sarà proprio così: a Israele sarà tolto il regno di Dio e sarà dato ad altri (ai pagani, alla Chiesa) e la pietra (Gesù) che essi hanno scartato, ucciso, fuori da Gerusalemme (“fuori dalla vigna”) sarà invece la pietra d’angolo, la pietra su cui poggerà l’intera nuova costruzione.
In pratica cosa ci dice questo vangelo? Che chi è inutile, chi ha perso la sua autenticità, la sua “caratura” originale, viene inesorabilmente “scartato”, accantonato, superato.
Purtroppo oggi anche la Chiesa di Cristo sta attraversando un momento difficile; per il suo voler mettersi “al passo coi tempi”, per la sua tacita rinuncia ad essere “una, santa, cattolica e apostolica”, sta gradualmente scomparendo dalle nazioni “civili”, dalle nostre città, da gran parte del mondo. Inutile attribuire la colpa a fattori esterni (consumismo, individualismo, relativismo, amoralità, ecc.), questo non ci giustifica; il vero motivo va cercato purtroppo al suo interno, nella perdita degli autentici valori cristiani da parte dei pastori e dell’intero gregge.
La storia ci insegna che quando il Vangelo di Cristo non è più vitale, significativo, fondamentale per una comunità, questa è destinata nel tempo a scomparire dalla scena religiosa, sociale, culturale. È stato così per Israele, è stato così per molte comunità cristiane dei primi secoli; e sarà così anche per molte comunità cattolico cristiane della nostra Europa, che di Cristo hanno conservato solo la radice del nome.
Dio, il padrone della vigna, continua a fare egregiamente anche oggi la sua parte: pianta, circonda, scava, costruisce, affida: la sua attenzione, il suo interessamento, il suo amore non vengono mai meno. Il Vangelo ce lo attesta chiaramente: “Vi ho guariti, vi ho fatto resuscitare, vi ho sfamati, perdonati, illuminati; vi ho provato e vi provo continuamente tutto il mio amore; cosa devo fare ancora?”. Sappiamo bene quanto ha fatto il padrone della vigna, ma a noi questo non interessa: imperterriti, continuiamo a comportarci come i vignaioli: sperimentiamo la sua bontà nell’averci chiamati nella “vigna”, ma non vogliamo essergli riconoscenti; conosciamo il lavoro da eseguire, ma ci rifiutiamo di farlo; ascoltiamo ogni domenica la sua Parola, ma il nostro cuore si è inaridito, non si lascia scalfire; conosciamo i suoi messaggi, la sua presenza discreta e insostituibile, ma la nostra mente è chiusa in sterili discussioni neoteologiche, con lo scopo di eliminarlo, di ucciderlo ancora una volta, perché continua a farci troppa paura.
Eppure Dio non deve fare più nulla per il mondo, non deve dimostrare più nulla. Il problema non è Lui, siamo noi: è il cuore degli uomini che è diventato insensibile, pietrificato! Siamo noi che siamo allo sbando, che pretendiamo di andare avanti con gli occhi bendati, aspirando più al consenso dei popoli, alla notorietà, all’affermazione egoistica del nostro io, piuttosto che a lavorare fedelmente e umilmente nella sua vigna.
Ma così non riusciremo mai ad accorgerci delle migliaia di gesti d’amore che molte persone continuano a compiere in suo nome nel silenzio e nell’umiltà; non potremo mai vedere la bontà che nonostante tutto cresce intorno a noi; continueremo a non apprezzare chi ci aiuta, chi ci sostiene; non potremo godere della bellezza del creato, espressione dell’amore di Dio, che circonda e illumina i nostri passi ogni santo giorno; non potremo insomma capire mai quanto sia preziosa la Vita. Continueremo invece a recriminare, a prendercela con Lui, a lamentarci con Lui per qualunque contrarietà, per qualunque presunta ingiustizia ci capiti nella vita.
Quello di oggi è un vangelo che si presta molto bene ad una attenta lettura autobiografica: la vigna è la nostra vita, è la nostra esistenza: ed è una vigna bellissima, meravigliosa! Dio, il padrone, ce l’ha concessa in gestione gratuitamente con molta generosità. Ci ha detto però: “Attento che la vigna, la vita, non è tua. Non essere così stupido da pensare il contrario. È solo un dono. Lavoraci, usala bene, godi della sua fertilità, ma soprattutto falla fruttificare. Ma ricorda: non è tua, è mia”. E poiché di tanto in tanto si accorge che sbandiamo, che “usciamo” di strada, dal seminato, ci manda un preciso messaggio: “Attento, così non va! Se vivi così, muori dentro, lasci inaridire il tuo cuore, lasci soffocare la tua anima, ecc.”. Ma noi ce ne infischiamo altamente dei suoi messaggi e continuiamo a vivere come prima.
Ma Dio non desiste: ci manda un altro messaggio, un altro ancora, e poi tanti altri: gli sta troppo a cuore che la “nostra” vigna sia rigogliosa, non vuole perderla; ma noi ce la ridiamo, ci disinteressiamo, spensieratamente. Fino a quando, ci dice il Vangelo, arriva il momento in cui è troppo tardi: i “vignaioli” si sono talmente rinchiusi nelle loro idee, nella loro presunzione, nella loro cattiveria, da diventare insensibili a tutto; e a questo punto nessuno può fare più niente per loro!
Quando leggiamo questa parabola ci viene spontaneamente da esclamare: “Ma come hanno fatto quegli idioti di vignaioli a non capire? Come potevano pensare di farla franca, evitando la reazione del padrone?”. Ebbene, quei vignaioli siamo noi; siamo noi che ci comportiamo così apertamente da stolti, da insensati, da sprovveduti.
Dio con noi è sempre buono: ci manda dei messaggi, degli angeli custodi (angelo, in greco significa appunto messaggero), ci manda cioè dei consiglieri, delle guide, dei santi, che ci indicano la via giusta, la condotta da seguire. Dio non ci costringe, non ci forza, non ci toglie la libertà. Ci invita, ma mai ci obbliga. Noi però dobbiamo accettarli questi messaggi, dobbiamo essere ricettivi, dobbiamo capirli. Non esiste alcun sistema di decodifica: ogni messaggio è unico, ognuno lo “sente” in base al suo vissuto. Qualunque cosa ci accada, dobbiamo sempre chiederci: “Cosa mi vuol dire Dio questa volta? Cosa devo ancora imparare?”. Solo così ogni giornata di lavoro nella nostra “vigna” diventa fruttuoso, è per noi una lezione di vita. Fino a quando arriverà la sera della nostra vita, continueremo a imparare, a capire, ad apprezzare i frutti della vigna.
Non c’è maestro più grande della Vita per chi l’ascolta: è solo “vivendo” la Vita che impareremo a vivere. Per chi invece non ascolta, per chi non accetta questa scuola, l’esistenza diventa un peregrinare stupido, insignificante, senza senso, a volte estremamente doloroso. Più che un amico, la vita è un nemico da cui difendersi. Allora non diamo la colpa a Dio; non imprechiamo contro la vita, perché l’unica responsabile del suo fallimento è la nostra caparbia ottusità! Amen.



venerdì 29 settembre 2017

1 Ottobre 2017 – XXVI Domenica del Tempo Ordinario

In verità vi dico: I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. È venuto a voi Giovanni nella via della giustizia e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, pur avendo visto queste cose, non vi siete nemmeno pentiti per credergli» (Mt 21,28-32).

La tensione e la conflittualità tra Gesù e i capi del popolo (scribi, farisei, anziani, sommi sacerdoti), in quest’ultima parte del vangelo di Matteo, è altissima. Gesù, scagliandosi contro il loro perbenismo e la loro ipocrisia, dice cose tremende, inaccettabili per della gente che faceva parte del sinedrio, che si considerava pura, religiosa, pia, esemplare, e quindi intoccabile.
Tacere, ignorare, soprassedere, non rientra nello stile di Gesù: quello che non va, che non è lecito, deve essere rimosso: solo così si può ricominciare su basi corrette.
È dunque questo il contesto che offre lo spunto alla parabola di oggi.
Un racconto semplice, ma ricco come al solito di insegnamenti: c’è un padre con due figli ai quali impartisce lo stesso ordine: “Va’ a lavorare nella vigna”. Il primo, gli dice subito “Sì”, ma non ci va. È un figlio ossequioso, educato, e con molto fair play: risponde subito al padre affermativamente (mai contraddirlo!), ma poi, come se nulla fosse, fa di testa sua e non ci va.
Il secondo, invece, in maniera maleducata e insolente gli risponde: “No!”; ma poi, ripensandoci, si pente, cambia idea (metamelétheis) e obbedisce.
È chiaro che nessuno dei due ha voglia di andare a lavorare. Ma mentre il primo, da figlio educato, attento alla “forma”, risponde in maniera contraria a quanto realmente pensa in cuor suo (il suo “sì” esteriore equivale ad un “no” interiore), il secondo invece, incurante dei sentimenti del padre, è coerente con se stesso, e gli dice senza tanti preamboli quello che di getto gli esce fuori: “nossignore!”; ma subito dopo si rende conto di aver sbagliato, capisce che il suo dovere è di ubbidire al padre, quindi torna sulla sua decisione, e il suo “no” diventa un “sì”.
“Chi dunque ha compiuto la volontà del padre?”, chiede Gesù. E tutti dicono: “L’ultimo”.
E non può che essere così. Se invece giudichiamo i due comportamenti fermandoci in superficie, al solo comportamento esteriore, alle belle parole, alla gentilezza, il primo merita sicuramente una valutazione più che positiva, contrariamente al secondo che, grazie ai suoi modi sgarbati, maleducati, altezzosi, può ottenere solo una netta disapprovazione. Ed è proprio in tale prospettiva che appare subito evidente quello che Gesù vuol dirci con questa parabola: non sono le buone intenzioni, i modi aggraziati, le belle parole, le apparenze esteriori che contano: quello che conta è il risultato, sono i fatti, è quello che si fa nella vita reale di ogni giorno. Il riferimento al modo di fare dei sommi sacerdoti, degli anziani del popolo, degli scribi e dei farisei, che vendevano tutti soltanto fumo, apparenza, esteriorità, senza alcun riscontro interiore, è forte e chiaro.
Di loro infatti aggiunge:“I peccatori pubblici (pubblicani) e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio”. Inaudito, sbalorditivo, per quel tempo, riferirsi agli operatori del sacro in questi termini: sarebbe come se oggi Gesù dicesse ai cardinali, ai vescovi o ai preti: “Le prostitute sono meglio di voi!” (anche se in alcuni casi direbbe la verità!).
Ma Gesù non ce l’ha a priori con i religiosi, con i consacrati, con gli addetti al sacro. Semplicemente non fa sconti a nessuno. Ma perché proprio le prostitute passeranno loro avanti? Non poteva dire gli assassini, i ladri, i delinquenti ecc.? Semplicemente perché qualche giorno prima era rimasto molto colpito nel constatare il sincero pentimento di una di loro. Lo spunto infatti gli viene suggerito dall’episodio, riportato da Luca (Lc 7,36-50), in cui “una di quelle”, una prostituta, lo va a trovare. È chiaro che con la sua vita, con la sua condotta di pubblica peccatrice, lei dimostra di non tenere in alcun conto gli insegnamenti e la persona di Gesù. Il suo è un “no” evidente. Eppure nel comportamento riservatogli in quell’occasione, Egli legge nel suo cuore un chiarissimo, inconfondibile “sì”, un’apertura a Dio, un pentimento sincero, una ferma decisione di redimersi: sappiamo che Gesù stava mangiando a casa di Simone, un fariseo, uno dei puri per definizione; quando improvvisamente questa donna, apertamente impura, entra e si butta ai piedi di Gesù: li lava con le lacrime e li asciuga con i suoi capelli. Certo, per chi guarda le apparenze, i suoi sono gesti molto accattivanti, sensuali, quasi lascivi: ma la donna usa queste sue arti del mestiere per dimostrare qualcosa di più autentico, di più profondo, il suo pentimento, il suo amore. Quello che esteriormente appariva sacrilego, un invito provocante a peccare, grazie alla sua trasformazione interiore, al suo sincero ravvedimento, diventa fede e riconoscenza per Gesù. E poiché Egli non guarda all’apparenza esteriore, poiché guarda “dentro”, guarda il cuore, le dirà: “La tua fede (=ciò che hai fatto) ti ha salvato”.
Per i puri, gli impeccabili, i religiosi del tempio, la fede era ciò che l’uomo “fa” per Dio: per Gesù, invece, la fede è ciò che Dio “fa” per l’uomo. Così, Gesù non vede una prostituta; vede una donna, che ha bisogno d’amore, di accettazione e di perdono. E lui glielo dà. Gesù vede una donna che ama come può, ma ama; una donna che ha un cuore che batte, che è viva. E questo gli basta.
Nei farisei e nei religiosi di allora Egli vede invece molto risentimento, falsità, comportamenti malvagi. Preferisce i pubblicani e le prostitute: non perché approvi ciò che fanno, ma perché questa è gente che faticosamente, umilmente, con tanta buona volontà, prova a redimersi. È gente che si butta ai suoi piedi, che piange, che si dispera; gente che non teme di mostrarsi per quello che è, che non si vergogna, che non nasconde dietro una bella facciata le proprie miserie, i propri disagi, le proprie ferite. Gente che si accorge di aver sbagliato, gente che cambia vita. Gente dal cuore grande, che arriva a fare follie: perché chi ama sul serio, chi è veramente innamorato, arriva a fare anche l’impossibile.
Sono i gesti dell’amore: folli per chi ha il cuore duro, rigido, insensibile, ma normali gesti di carità, di misericordia, di vita, per chi dice “sì” a Dio.
Un’ultima cosa: abbiamo mai fatto caso come ogni qualvolta Gesù va in chiesa (in sinagoga) nasca sempre un problema? Anzi, che dopo quel giorno in cui, pieno di rabbia, ha buttato tutto all’aria, non ci sia più andato? Perché? Perché il grande pericolo di ogni chiesa, in ogni tempo, ieri come oggi, è quello di trasmettere solo prediche, belle parole, regole e comportamenti esteriori, tralasciando la cosa più importante: quella di trasmettere, di far sperimentare, di far vivere, di far “sentire” Dio nei cuori di ciascuno. Le parole di una predica, di un’omelia, ancorché perfetta, si fermano all’esterno: ma all’esterno non c’è vita. Rimangono vuote, sterili, gettate al vento. Non portano ad amare Dio nel profondo del cuore, nell’intimo dell’anima, dove palpita la vita; eppure quello è il suo posto, il posto che Lui ama: Lui è là dove nasce il dolore, dove sgorga la gioia; là dove la gente si commuove, dove chiede scusa, dove si mostra per quello che è, senza vergognarsi e senza nascondersi; là dove la gente non ha un’immagine esteriore da difendere, una maschera da esibire. Gesù sta dove nasce e cresce la vita, perché Lui stesso è Vita, e non può che stare lì. Amen.



giovedì 21 settembre 2017

24 Settembre 2017 – XXV Domenica del Tempo Ordinario

«Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?» (Mt 20,1-16).
Il Vangelo di oggi ci racconta di un padrone che in varie ore del giorno, dall’alba fino al tardo pomeriggio, esce di casa e ogni volta assume nuovi operai per lavorare nella sua vigna, concordando con i primi la paga di un denaro. Venuta la sera, egli inizia dagli ultimi assunti, a consegnare loro il compenso di un denaro. Giunto il turno di quelli ingaggiati all’alba, consegna anche a loro lo stesso importo: un denaro. A questo punto, quelli che hanno lavorato l’intera giornata, insorgono e accusano il padrone di comportamento ingiusto. Al che il padrone, prendendo il più esagitato, gli dice: “Amico, perché urli tanto? Quello che hai ricevuto non corrisponde forse a quanto abbiamo concordato?”. “Sì!”. “Per caso ti ho tolto qualcosa?”: “No!”. “E allora, cosa vuoi da me? Prendi ciò che è tuo e vattene. Non posso fare ciò che voglio con quello che è mio?”.
Ecco: Gesù vuole dare un insegnamento preciso ai suoi discepoli. Egli conosce bene le loro aspettative. Poco prima lo stesso Pietro gli aveva offerto l’occasione per affrontare questo discorso: interpretando anche il pensiero degli altri, gli aveva detto esplicitamente: “Noi per seguirti abbiamo abbandonato tutto, casa, lavoro, famiglia; cosa ci darai in cambio?” (cfr. Mt 19,27). Pietro ragiona con la mentalità del tempo: Dio premia i giusti e castiga i cattivi. Pertanto, poiché lui e gli altri discepoli sono “giusti” (hanno seguito Gesù senza alcun indugio), egli rivendica per tutti un trattamento di favore: “siamo sempre con te, ti seguiamo ovunque, facciamo molto più degli altri: cosa ci riserverai allora più di loro?”.
Gesù però non ha mai detto nulla, neppure una parola, che facesse anche solo pensare a cose di questo genere. Ha detto invece: “Il Padre vostro che è nei cieli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, fa piovere sui giusti e sugli ingiusti”; e ancora: “Mio Padre ama tutti, buoni e cattivi”.
Quindi nessuna pretesa di ottenere particolari riconoscimenti per quanti lavorano nella sua vigna, sia che lo facciano dalle prime ore del giorno (da ragazzi), che da quelle del tardo pomeriggio (già anziani): del resto l’amore (la paga) che Dio riserva a tutti i suoi lavoratori, supera di gran lunga qualunque loro aspettativa: li soddisfa a tal punto da escludere qualsiasi altro desiderio.
Una parabola molto significativa, quella di oggi, che contiene tra l’altro due messaggi particolarmente importanti per noi; anzi addirittura fondamentali.
Il primo ci dice che “stare” con Gesù, “accompagnarlo”, non vuol dire necessariamente “seguirlo”. Gli apostoli per esempio durante la vita pubblica di Gesù, lo accompagnavano, stavano sempre con lui, ma non lo “seguivano”. “Seguire” infatti è capire, far penetrare nel proprio cuore il suo messaggio, attivarsi per metterlo in pratica, in una parola amare il suo Vangelo e viverlo.
Si racconta in proposito di un santo abate che guidava molte centinaia di monaci, sparsi nei vari monasteri da lui fondati; un giorno gli chiesero quale fosse il numero complessivo dei suoi monaci, ed egli rispose: “Quattro o cinque al massimo!”.
Troppa gente purtroppo “accompagna” semplicemente Gesù”: va in chiesa, prega, gli rivolge inni e orazioni, ma non lo “segue”: non è imbevuta cioè del suo vangelo, non segue con il cuore i suoi insegnamenti. A fine giornata si presentano alla "cassa" come instancabili lavoratori, assidui operatori del sacro, anche se in effetti non hanno mai lavorato, non hanno mai sopportato alcun disagio nella loro sequela, alcun “pondus diei et aestus”, anche se sono quelli della prima ora; la loro aspettativa di premio è pertanto improponibile: se paga buona ci sarà, dipenderà unicamente dalla generosità del Padre, non certo dalle loro pretese.
La seconda indicazione, altrettanto fondamentale, conferma e chiarisce la prima: Dio cioè ama tutti indistintamente, sia coloro che lo “seguono” dal mattino della vita, sia quelli che rispondono alla sua chiamata della sera. Nessuno deve aspettarsi trattamenti preferenziali: non è la durata o la difficoltà del servizio che fa aumentare i meriti: “Voi che mi seguite, non siete migliori degli altri”. Dio cioè non ci premia, come pensiamo noi, per la nostra bravura, per la nostra obbedienza più duratura, più coerente. Il premio finale del suo amore eterno è destinato, in ugual misura, a tutti i “lavoratori”: sia della prima che dell’ultima ora. C’è un’unica condizione essenziale che ci qualifica per la ricompensa: essere “lavoratori” di “qualità”, non di “quantità”.
Un principio che ci è difficile condividere pienamente. Scriveva Orwell: “Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri”: una verità che ci trova sicuramente più consenzienti: in pratica è quello che pensiamo noi “battezzati”: Dio ama tutto il genere umano, è vero; ma sicuramente i “segnati”, i prediletti, quelli che praticano il Vangelo, i santi, Dio li ama sicuramente più degli altri. Niente di più falso: le parole di Gesù non permettono fraintendimenti: “I pubblicani (i peccatori) e le prostitute, vi passano davanti nel regno di Dio” (Mt 21,31). Questa è la verità, e dobbiamo accettarla umilmente. Invece quanti “cristiani”, ancorché pii e religiosi, non sanno capacitarsi: “non è giusto – dicono - che chi si converte sul letto di morte, all’ultimo momento, dopo una vita intera passata nel peccato, riceva lo stesso nostro trattamento; non è giusto cioè che anche lui possa andare in paradiso come noi che abbiamo faticato tutta la vita!”.
Purtroppo è la nostra radicata mentalità meritocratica che ci porta a pensare così: “Io ho pregato tanto, io sono sempre andato in chiesa, io ho fatto questo, io ho fatto quello: è impossibile che Dio non mi ami più di quelli che non hanno fatto nulla!” No, Dio non ti ama “di più”. Dio ti ama, punto. E come te ama anche tutti gli altri. Pensare diversamente significa essere schiavi dell’invidia, significa provare per gli altri soltanto del rancore.
Ed è anche su questo aspetto che Gesù, con questo messaggio, vuol metterci in guardia: “Sei anche tu invidioso perché io sono buono con tutti?”. Già, l’invidia: non è un paradosso il suo, non allude ad una situazione inverosimile. Non capita forse proprio a noi di “prendercela” a male, di offenderci ogni volta che qualcuno “sceglie” un altro al posto nostro? Non capita proprio a noi di arrabbiarci perché altri sono più fortunati? Di “legarcela al dito” perché qualcuno ha invitato altri e non noi ad un evento cui tenevamo molto? Sì, capita anche a noi; anche noi siamo invidiosi: e lo siamo perché, come i bambini, pretendiamo di essere sempre i primi, i preferiti, gli unici. Ci sono persone che sprecano la vita per rincorrere modelli di vita impossibili, pur di sentirsi ammirati, pur di passare per qualcuno “che conta”. Purtroppo non arriveranno mai all’apice dei loro sogni, perché nella loro ansia di primeggiare, troveranno sempre sulla loro strada qualcuno con cui devono continuare a confrontarsi.
Quello che conta, invece, è che noi siamo una realtà unica: noi siamo noi e nessun altro. Ogni volta che vogliamo essere come gli altri, decretiamo il nostro fallimento: significa che ci sottovalutiamo, che non ci riconosciamo uguale valore e dignità. Ci dimentichiamo che l’essere noi stessi è il nostro più grande valore. Non serve a nulla confrontarci con gli altri: nella vita ci sarà sempre un vincente e un perdente, un superiore e un inferiore. Ma noi siamo noi: sviluppiamo allora quello che siamo; valorizziamo le nostre doti, le nostre risorse, i nostri talenti. Più saremo impegnati in questo, meno tempo avremo per guardare fuori di noi, per fare confronti con quello che sono gli altri. Chi è felice di sé non prova invidia per nessuno. Noi siamo amati. Le persone ci amano, Dio ci ama: non perdiamo tempo a quantificare se di più o di meno degli altri. Siamo amati e questo ci basti! Ringraziamo piuttosto e benediciamo Dio; gioiamo e riempiamoci il cuore di questa certezza. Che significato ha continuare a prendercela con Dio se la nostra vita non è come vorremmo? Se non è “di più” di quella degli altri? O forse siamo invidiosi anche di Dio perché pensiamo che non sappia fare il suo mestiere?
Un bambino, sulle scale di casa, giocava a “fare il prete” insieme ad un suo amichetto. Tutto andò bene finché l’amico, stufo di fare il chierichetto, salì su di un gradino più in alto del suo e cominciò a predicare. Il bambino naturalmente lo rimproverò bruscamente: “Solo io posso predicare, tocca a me, perché io sono il prete”. Allora l'amico più piccolo gli disse. “Ma io sono il vescovo, e predico perché sono su un gradino più alto del tuo!”. L’altro lo guardò, fece silenzio e decretò: “Va bene, tu sei il vescovo e puoi predicare; ma ricordati che io sono Dio!”.
Se ci riduciamo a pensare che la vita sia soltanto una questione di scale, passeremo tutto il nostro tempo a sgomitare continuamente sui gradini, cercando di salire sempre più in alto degli altri: ma le scale della vita non sono infinite; prima o poi ci accorgeremo della nostra stupidità; ci accorgeremo di aver sprecato tutto il tempo per raggiungere posizioni precarie sempre più ambiziose, rinunciando a godere dei doni veri, delle bellezze meravigliose, dell’amore profondo che Dio ci ha messo a disposizione gratuitamente in questa nostra vita. Amen.


giovedì 14 settembre 2017

17 Settembre 2017 – XXIV Domenica del Tempo Ordinario

«Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?».
Il Vangelo di oggi continua a proporci insegnamenti per la nostra vita “comunitaria”. Domenica scorsa ci ha dimostrato quanto sia importante in una comunità ascoltare le ragioni del proprio fratello, rapportarsi con lui; quanto sia importante aprirgli il nostro cuore e accogliere il suo. Oggi ci offre un ulteriore approfondimento del tema: uno dei modi più efficaci per esprimere l'amore, è il perdono.
A Pietro, come al solito, la teoria non basta, egli vuol saperne di più, avere certezze, vuol vederci chiaro, nero su bianco. «Quante volte devo perdonare?». Egli ha capito perfettamente che bisogna perdonare: ma quali sono i limiti di questo perdono? Egli pensa di mettersi in linea con la predicazione di Gesù, andando oltre le tre, quattro volte, previste dall’antica legge (come per es. in Amos 2,4 e Giobbe 33,29) e, per tenersi sul sicuro, propone “sette volte”. Ma la risposta di Gesù va ben oltre: rovesciando il canto di Lamech che prevedeva un crescendo di violenza scatenata dal gesto di Caino: «Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette…» (Gn 4,24), Gesù fa capire quali impensabili risorse di misericordia siano legate all’avvento del suo Regno:«Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette». In altre parole, caro Pietro, non hai scampo: devi perdonare sempre! Perché? Semplice: il perdono non è frutto di un gesto eroico che nasce dal grado di bontà del discepolo, ma è la logica conseguenza di chi si rende conto di quanto perdono, lui per primo, abbia ricevuto dal Signore... Chi si guarda un po’ dentro, e vede quanto male gli è stato perdonato, non può esimersi dal perdonare a sua volta qualunque torto. Quindi l'unica misura del perdono è perdonare sempre, senza misura e senza calcoli, perché è così che Dio fa con noi. La nuova giustizia che Gesù introduce nel Regno, infatti, non è quella che ristabilisce la parità, in base alla regola “chi sbaglia paga”; la sua è una giustizia superiore, è la giustizia propria di chi ama senza limiti. Egli sostituisce la giustizia della legge che uccide, con la sua, quella dello Spirito che dona vita.
Perdono incondizionato, dunque. Ma cos'è il perdono? È possibile il perdono? Come si giustifica? Come viverlo? Cerchiamo di chiarire un po’ questi interrogativi.
Per ciascuno di noi è una cosa naturale, istintiva, reagire alle offese degli altri e in qualche modo vendicarci, anche se si tratta di piccole cose. Se poi subiamo torti o azioni cattive più gravi, lesioni alla nostra dignità, alla salute o alla vita nostra e dei nostri cari, sentiamo non solo il bisogno di far valere le nostre ragioni giudizialmente (e fin qui può andare bene), ma soprattutto di affrontare con altrettanta durezza e cattiveria il responsabile, per fargli pagare ad ogni costo il “male” che abbiamo ricevuto. Ma è una soluzione che non paga. Perché ci fa cadere inevitabilmente in quel meccanismo in cui il male richiama altro male, la violenza (di qualunque tipo) richiama e moltiplica violenza; in questo modo non plachiamo certamente l’odio, ma lo alimentiamo facendolo crescere sempre più; inoltre l’idea della vendetta ci illude, ci corrode l’anima, inducendoci a pensare che è lei, la ritorsione, a rimettere le cose a posto; ma il risultato è ingannevole perché ci fa vivere nel tormento, con l'inferno nel cuore. Conosciamo tanti piccoli casi intorno a noi: vicini di casa che hanno litigato per un nonnulla e lasciano passare anni, decenni, senza scambiare una parola, un saluto; genitori e figli che interrompono ogni rapporto per motivi futili e banali; fedeli impegnati nella parrocchia, attivi nella pastorale e nel volontariato, che si dilaniano l’anima per soprusi o per sgarbi di “lesa maestà” inesistenti; fratelli e sorelle apertamente ostili tra loro, che al momento della pace nell’Eucaristia domenicale, invece di aprirsi all’amore e alla misericordia secondo l’insegnamento di Gesù, preferiscono fingere e mantenere immutato nel cuore tutto il loro rancore. Ciascuno rimane orgogliosamente arroccato sulle proprie posizioni, su versanti di vita diametralmente opposti. Eppure il perdono è l'unica strada, umana e cristiana, che ci assicura una vita vera, autentica, serena e felice. Vi sono poi altre situazioni ben più dolorose e strazianti, come rovinare per capriccio la vita e la serenità di una famiglia, rubando l’amore del marito o della moglie, oppure causare per gioco, per superficialità, la morte di un figlio, di una persona cara. Cosa fare allora? Come gestire queste gravi situazioni? Come continuare a vivere, dopo aver subito azioni così distruttive? Ebbene, nel perdono non ci sono eccezioni, non ci sono “distinguo”: sempre, anche in questi casi, dobbiamo perdonare. Dobbiamo farlo noi per primi, portando gli altri a fare altrettanto. Sembra impossibile, non è vero? Certo, umanamente parlando, visto dall’esterno, il perdono può sembrare un gesto eroico, irrazionale. Ma a ben vedere, non è altro che un gesto di equità, un concedere all’altro lo stesso beneficio che noi abbiamo già ricevuto da Dio in larghissima misura. Difficile da praticare, questo si. Ma Gesù ci dimostra continuamente che tutto quello che gli uomini non riescono a fare da soli, lo possono sempre fare con il Suo aiuto. Per questo dobbiamo chiedergli la forza di cui abbiamo bisogno.
Molti pensano che perdonare sia un atto riservato a chi ha molta fede, a quanti sono già avanti nel difficile cammino della perfezione. Nossignori. Il perdono è un atto che tutti possono e devono fare: un impegno forte, che deve normalizzare la nostra vita, il nostro modo di pensare, il nostro relazionarci, il nostro vivere da cristiani. Certo non è una cosa naturale, spontanea, semplice, quanto piuttosto un gesto irrazionale, contro natura, incomprensibile: esattamente come lo è l’intero messaggio evangelico di Gesù. Egli, perdonando e scagionando contro ogni logica umana i suoi torturatori, i suoi carnefici, ci ha lasciato il più sublime esempio di perdono: ecco perché le sue non sono raccomandazioni astratte, ma vita vissuta, scuola pratica che tutti possono e devono seguire.
Il cristiano è chiamato a perdonare, sempre e in ogni caso, soprattutto perché Dio lo ha sempre fatto, e continua a farlo con lui. Inoltre il vangelo di oggi, con la sproporzione del debito dei due servi, (migliaia e migliaia di talenti contro pochi denari) ci ricorda proprio l’enorme divario che esiste fra il perdono di Dio e il nostro. Ecco: noi siamo chiamati a perdonare perché siamo dei “perdonati”, perché noi per primi abbiamo fatto e facciamo esperienza continua del gratuito perdono di Dio, non certo perché siamo più buoni, più cristiani degli altri. Non dobbiamo perdonare per dimostrare qualcosa a qualcuno; ma solo perché anche noi abbiamo bisogno assoluto di perdono, e perché portare rancore, fa più male a noi che agli altri. Sicuramente il nostro perdonare, come quello di Gesù, rischierà di essere ridicolizzato dalla gente, forse ci verrà rinfacciato come segno di debolezza, di meschinità. Poco importa: chi ha incontrato sulla propria strada il grande perdono di Dio, non può sottrarsi dal guardare sempre suo fratello con amore e comprensione.
È in questo senso che dobbiamo leggere il famoso detto di Paolo: “dove abbonda il peccato, sovrabbonda la grazia!” (Rm 5,20). Il perdono che, da peccatori perdonati, accordiamo ai fratelli, diventa in noi il “respiro di Dio”, diventa cioè quello Spirito divino che alimenta la nostra vita. Una comunità è “osservante”, è “santa”, non perché i suoi membri sono perfetti cristiani, assidui praticanti che non sbagliano mai e non mancano di rispetto a nessuno; ma perché tutti, consapevoli di essere loro stessi dei “perdonati”, perdonano immediatamente a loro volta gli altri, ricambiando qualunque offesa con l’amore. In questo modo, e può sembrare assurdo, il male reciproco che troppo spesso ci facciamo, non costituisce un elemento dirompente di divisione ma, nel reciproco perdono, diventa il collante che ci unisce saldamente in Cristo.
Anche a noi succede di essere dei giudici giusti ma spietati, onesti ma scorretti! Non basta infatti praticare la giustizia umana per essere uomini perfetti, e men che meno per essere figli di Dio. Se capiamo che il perdono guarisce, matura e fortifica soprattutto chi lo esercita, cioè noi, e non coloro che lo ricevono, allora capiremo che perdonare significa fare soprattutto il nostro interesse!
E concludo: Gesù suggella il suo insegnamento, proponendoci una pietà, una misericordia, un perdono, razionalmente incomprensibili quanto si vuole, ma di una coerenza estremamente semplice: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”
Due sono dunque i motivi per cui dobbiamo avere pietà e perdonare: per conquistare il cuore di Dio e per introdurre nell’apparente equilibrio di questo nostro mondo garantista, il “disordine divino”, scompaginante, del suo messaggio d’amore. E dobbiamo farlo col cuore. È difficilissimo perdonare veramente di cuore: comporta prima di tutto un profondo atto di fede con cui dare fiducia assoluta all’altro, senza tenere conto del passato, ma guardando solo al futuro. Esattamente come Dio fa con noi. Dio infatti ci perdona per un suo preciso atto di fede, Egli crede in noi, si fida di noi! Perdonandoci, Egli investe su di noi, conta sul nostro cammino di perfezione. E allora, come non rispondere positivamente al suo invito di essere operatori di bontà?. Amen.



giovedì 7 settembre 2017

10 Settembre 2017 – XXIII Domenica del Tempo Ordinario

«Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello…» (Mt 18,15-20).
Il Vangelo di oggi ci rivela un Matteo preoccupato di veicolare gli insegnamenti di Gesù alla comunità del suo tempo. Il suo è un tentativo di “tradurre” lo spirito di Gesù in comportamenti e regole, destinati ai suoi contemporanei, a uomini che hanno vissuto più di duemila anni fa, in un ambiente e in una cultura molto diversa dalla nostra. Le sue sono regole destinate a mutare nel tempo, in quanto legate ad una particolare cultura. Quello che deve interessare a noi, e che rimane immutato nei secoli, è invece il messaggio di Gesù, quello che scaturisce dal suo insegnamento e dalla sua vita.
Ecco allora che il senso profondo del Vangelo di oggi ci deve impegnare tutti, perché nella sua semplicità, comporta uno sforzo costante, per nulla scontato: nei nostri rapporti con gli altri, cioè, dobbiamo usare umiltà, sollecitudine, discrezione e amore.
Se noi siamo convinti discepoli di Gesù, se Dio abita realmente nel nostro cuore, lo dimostriamo non attraverso la quantità delle nostre preghiere o mediante la frequenza con cui invochiamo il suo nome, ma da come ci comportiamo nelle nostre relazioni interpersonali, dalla qualità dei nostri rapporti con le persone che ci stanno vicino, da come insomma stiamo con gli altri. 
“Nella tua vita, qualunque cosa fai, falla sempre con amore”: è questa la massima che dobbiamo seguire sempre fedelmente. Anche quando litighiamo, quando lottiamo, quando entriamo in conflitto, non dobbiamo mai dimenticarci di amare l’altro. Può sembrare una battuta ma non lo è; perché nella vita può succedere che non si litiga mai con nessuno, che si è sempre ossequiosi con tutti, senza per questo amare nessuno; al contrario si può anche litigare continuamente con i fratelli, ma nello stesso tempo amarli sinceramente, di vero cuore. Possibile? Certo: a condizione che il “litigio”, il “robusto” scambio di opinioni (chiamiamolo così!), poggi su una reale onestà mentale, sia fondato nella carità, nell’amore fraterno: in questo modo ogni “scontro” lascerà ricchezza di vita, verità da imparare, apertura verso gli altri, e non una totale chiusura nelle proprie posizioni, nell’astio irrazionale, come di solito avviene. Ci sono persone infatti che per anni litigano testardamente sempre per lo stesso identico motivo: ciò vuol dire che non hanno saputo imparare, non hanno voluto capire. Ma a che pro allora litigare? Non serve assolutamente a nulla, è inutile, fa solo male: se per principio non si vuole imparare, non si crescerà mai. Non riduciamo la nostra vita ad una perenne disputa tra sordi!
L’insegnamento di oggi però va oltre: in una eventuale disputa, in una controversia, è indispensabile adottare sempre due atteggiamenti fondamentali: il primo è di evitare la pubblicità, di non mettere in piazza la lite col fratello, di non dare in pasto all’opinione pubblica i dissapori personali; la seconda è di riservare all’altro la nostra migliore carità, un maggiore esercizio dell’amore. Se un nostro fratello sbaglia, se c’è tra noi un problema, dobbiamo capire che in quel momento egli ha ancor più bisogno della nostra comprensione, del nostro amore: dobbiamo quindi agire nei suoi confronti con maggior riservatezza, con maggior gentilezza, con maggior attenzione. In una parola dobbiamo comportarci con grande carità e discrezione. È esattamente quanto ci sottolinea in apertura il vangelo di oggi: “Se c’è una questione irrisolta fra te e tuo fratello, va di persona, da solo”; e lo fa in aperto contrasto con quanto la legge antica imponeva: “Rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato per lui” (Lv 19,17). A quel tempo era infatti normale denunciare apertamente l’operato di una persona: “se sai una cosa dilla a tutti”. Gesù, invece, propone una condotta del tutto nuova, rivoluzionaria, decisamente contro la legge e l’usanza del tempo. C’è qualcosa che non va, hai subito un torto da parte di qualcuno? Va da lui e chiarisci privatamente la cosa con lui. Solo così conoscerai personalmente il suo punto di vista: e forse ti ricrederai; forse le cose non stavano proprio come tu pensavi. Mai, in ogni caso, basare il nostro giudizio sulle chiacchiere, su quello che dice la gente.
Solo se ci parleremo lealmente, potremo capirci, potremo aiutarci, potremo venirci incontro e smettere di giudicare: perché quando le persone fanno qualcosa, lo fanno per motivi che esse ritengono buoni, per motivi che a priori noi non conosciamo; anzi, molto spesso non agiscono per cattiveria, ma per paura, per fragilità caratteriale, per ignoranza.
Noi, invece, cosa facciamo in genere? Piuttosto che chiarire con il fratello, corriamo dai nostri “confidenti” per sparlare, per malignare su di lui; confidenti, che poi a loro volta si sentono immediatamente in dovere di commentare il fatto con i loro “confidenti”, innescando così una reazione a catena di maldicenze inopportune, senza alcun fondamento, il più delle volte crudeli, ipocrite, ingiuste.
Smettiamola allora di creare incomprensioni di questo genere: comportiamoci da adulti! Ragioniamo da adulti! Soprattutto ascoltiamo l’interessato! Per ben quattro volte il vangelo insiste sul verbo “ascoltare”. “Se ti ascolterà ti sarai guadagnato un fratello; se non ti ascolterà prendi con te dei testimoni; se non ascolterà neppure loro, dillo alla comunità; se non ascolterà neppure la comunità, solo allora lo tratterai come un nemico”. Una incalzante ripetizione che ci impone con forza il comportamento da tenere con gli altri: ascoltare, ascoltare, ascoltare, ascoltare. Punto.
Chiediamoci allora: noi, in concreto, siamo sempre disponibili ad ascoltare il fratello? In particolare cosa preferiamo ascoltare? Forse preferiamo ascoltare le parole false e volubili dei ciarlatani di turno, piuttosto che la voce profonda e veritiera del nostro cuore? E poi, in che cosa consiste esattamente questo nostro ascoltare? Se abbiamo già deciso a priori che il fratello è colpevole, che ha sbagliato, significa forse ascoltarlo? Se rimaniamo caparbiamente attaccati alle nostre idee preconcette, significa che l’ascoltiamo? Se non accettiamo vedute diverse dalle nostre, possibilità e modi diversi dai nostri, quanto vale il nostro ascoltare? Ancora: se alcune cose le vogliamo sentire e altre no, questo per noi significa ascoltare il fratello? Se quello che ci dice ci ferisce, “ci manda in bestia” e ci chiudiamo nel nostro silenzio tirando su un muro tra noi, oppure “non vogliamo sentire ragioni”, come possiamo dire di ascoltarlo? Se mentre lui parla noi pensiamo soltanto a cosa ribattergli, significa ascoltarlo? Se abbiamo sempre già pronte le risposte ad ogni domanda, illudendoci di essere come Dio, significa ascoltarlo? Se il nostro problema è cosa diranno gli altri, preoccupandoci più di noi che di lui, vuol dire ascoltarlo? Sicuramente no: e se non sappiamo ascoltarlo, come possiamo pensare di amarlo?
La prima comunità cristiana di Matteo non era certamente perfetta: anche in essa c’erano senz’altro dei conflitti. Ecco perché egli sente la necessità di raccomandare: “In tutte le situazioni, ci sia fra di voi l’amore”. Del resto anche le comunità moderne non sono da meno; non esiste convivenza che sia esente da tensioni, da lotte, da scontri. Ma ciò è dovuto soltanto alla naturale conflittualità tra mentalità diverse, che però non esclude in alcun modo la possibilità di amare; litigare è facile, inevitabile, ma questo non è un problema, non pregiudica l’uso dell’amore fraterno; semmai un problema serio è quando due persone non litigano mai, quando due persone si dimostrano sempre e in tutto perfettamente concordi: perché nel migliore dei casi vuol dire che una delle due ha rinunciato ad essere se stessa, a camminare con le proprie gambe, “conformandosi” completamente all’altra. E questo non è un atteggiamento basato sull’amore; l’amore vero si dimostra soprattutto nel modo in cui si affrontano e si risolvono i problemi comuni, le abituali conflittualità. Solo in questo modo una comunità dimostrerà di aver raggiunto una piena maturità.
Senza la conflittualità, senza le difficoltà, senza le tensioni, una comunità non cresce. Ecco perché è determinante il modo con cui affrontiamo gli altri, perché dalla qualità del nostro approccio possono dipendere armonie o separazioni, unioni o rotture, involuzioni o crescite. Non c’è cosa peggiore del pensare che tutto vada sempre bene, del voler vedere sempre e tutto in rosa, anche quando il nero è d’obbligo! La politica del nascondere la testa sotto la sabbia, come fa lo struzzo, non è mai soddisfacente.
Dobbiamo essere sempre sinceri, accomodanti, ma anche risoluti, perché non è facendo valere le nostre ragioni che ci dimostriamo cattivi, che offendiamo l’altro o gli manchiamo di rispetto: ma è la forma, il modo con cui lo facciamo. Non esprimere né difendere il proprio punto di vista, non è indice di carità né di amore fraterno; spesso infatti lo facciamo per finto buonismo, per disinteresse, o per falsa modestia: ma questo adeguarci passivamente, talvolta irrazionalmente, alle idee, alla volontà del partner o del leader, non è sicuramente prova di bontà, quanto di una preoccupante carenza di personalità, di convinzioni, di maturità, di certezze personali.
Da qui l’importanza di confrontarci con gli altri senza pretendere di essere superiori a loro, esprimendo quello che abbiamo dentro, senza peraltro sentirci inferiori a nessuno; dobbiamo soprattutto agire empaticamente, ossia saper ascoltare l’anima delle parole di chi abbiamo davanti; dobbiamo avere sempre un ascolto che non giudica, che non cambia, che non stravolge, che non vuole fagocitare l’altro. Dobbiamo imparare a non manipolare gli altri per i nostri scopi; dobbiamo imparare a gestire, a dominare, l’invidia, la gelosia, la competizione, i sentimenti di odio, di rabbia o d’altro: sentimenti che disgraziatamente sono molto comuni anche in una “civile” convivenza. Purtroppo, per imparare bene tutto questo, non c’è una scuola specifica: per tutto c’è una scuola, ma non per imparare a “con-vivere”, a vivere bene insieme. Solo la vita può farlo, ma deve essere una vita guidata dal Suo Amore e dall’ascolto della Sua Parola. Amen.