giovedì 5 aprile 2018

8 Aprile 2018 – II Domenica di Pasqua


«La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco» (Gv 20,19-31).

Il vangelo di oggi descrive due apparizioni di Gesù ai discepoli. La prima ci spiega cosa significa per la nostra vita “vedere” il Signore; la seconda che “vederlo” è una questione puramente personale: nessuno infatti può toccarlo, sentirlo, viverlo, sperimentarlo, al posto nostro; è un’esperienza che ognuno deve fare personalmente.
I discepoli, dopo la morte di Gesù, si erano rinchiusi ben bene nel cenacolo per paura di ritorsioni: sgomento e terrore scandivano le loro giornate. Le “porte chiuse” stanno ad indicare che non ne volevano più sapere del Signore, meglio dimenticare tutto e tornare, a tempesta sedata, alla loro quotidianità, alla vita di prima. Certo i giorni trascorsi con Gesù erano indimenticabili; avevano creduto in lui, lo avevano seguito con entusiasmo, ma poi improvvisamente l’evento tragico della sua morte ha infranto tutti i loro sogni: l’unica scelta possibile era quella appunto di rinunciare a tutto e di tornare a casa.
È per paura che anche noi molte volte rifiutiamo la fede: non ce l'abbiamo con Dio, anzi lo vorremmo conoscere a fondo, vorremmo che rimanesse nel nostro cuore; sappiamo che Dio non è un nemico, che non viene da noi per condannarci o per farci del male. Ma abbiamo comunque paura: paura di “aprirgli le porte”, paura di quanto potrebbe trovare dentro di noi, paura che ci metta di fronte alle nostre responsabilità, paura che scopra le nostre maschere, le nostre immagini di facciata, le nostre illusioni costruite sul nulla.
Ma Dio non ama il terrore. Non vuole mettere nessuno con le spalle al muro. Per cui incontrarlo significa per noi scuoterci dal nostro immobilismo, dal nostro nasconderci; significa rinunciare al nostro caparbio ed eccessivo isolamento, dal voler risolvere i problemi da soli, di testa nostra. Far entrare il Signore nella nostra vita è qualcosa di concreto, di sicuro, di vitale: sicuramente è molto impegnativo, talvolta anche doloroso: significa togliere tutti i “paletti”, aprire ogni serratura, spalancare le nostre porte, pregandolo di accomodarsi; significa mettersi completamente nelle sue mani, accettare ogni sua iniziativa; significa farlo entrare proprio là dove regna ancora il potere del buio, della paura, dell'ignoranza, della notte.
Tommaso stesso non è presente a questa prima apparizione del Risorto: come a dire che non è ancora pronto ad incontrarlo: resiste, è ancora dominato dalla paura, non vuole aprirsi a nessuno.
Ma quando la seconda volta Gesù entra nel cenacolo, presente Tommaso, e ripete “Pace a voi!”, tutte le sue resistenze cadono. Si rende conto che non ha motivo di aver paura; Gesù non inveisce, non rimprovera, non biasima nessuno; augura la pace a tutti e a ciascuno: un saluto che significa: “Stai tranquillo, non ti preoccupare, non ti spaventare, ci sono io, non temere, non aver paura”. E per dimostrare che è proprio Lui, chiede all’incredulo Tommaso di toccare con la mano le sue ferite. Perché ai primi due incontri con i discepoli Gesù insiste nel mettere in evidenza le sue ferite? Perché non la sua potenza, la sua gloria, il suo essere vittorioso sulla morte? Per dimostrarci che anche Lui ha sofferto e sperimentato il dolore: ha voluto mettersi allo stesso livello dell’umanità sofferente, ha voluto incontrare il nostro io sofferente, per dimostrarci la volontà di eliminare tutto ciò che ci fa male, che ci impedisce di vivere, che blocca la nostra crescita, la nostra vita interiore, che ci impedisce di camminare spediti e liberi al suo seguito.
Purtroppo tanti, troppi cristiani continuano a tenere Dio fuori dalla loro porta, preferiscono mantenere le loro ferite. Soffrono ma non vogliono farsi curare. In questo modo però la ferita un po’ alla volta marcisce, diventa cancrena e porta alla morte. Una ferita non curata, non medicata, infetta tutto l'organismo. La vita di moltissimi uomini è un fiume di sofferenza, è piena di dolore, di rabbia, di lacrime e di umiliazioni: ma continuano a non fidarsi di Gesù.
Eppure è lui che ha messo a dimora nel nostro cuore il seme della fede e dell’amore: un seme però che ha bisogno di cure costanti, delle nostre continue attenzioni, della nostra totale dedizione; è un patrimonio nostro, strettamente personale. Il percorso e le prove degli altri non incidono direttamente sulla nostra crescita spirituale; sapere come gli altri hanno incontrato Dio è sicuramente istruttivo, consolante, di sprone, ma non ci dispensa dall’andare avanti nel nostro percorso di avvicinamento: perché siamo noi, di persona, che dobbiamo incontrarlo; siamo noi che dobbiamo conoscerlo, siamo noi che dobbiamo finalmente sapere chi egli è. Il “sentito dire”, le grandi omelie, le dotte catechesi, ce ne possono parlare all’infinito: ma non possono sostituirsi alla nostra esperienza personale: siamo noi, solo noi, che dobbiamo raggiungerlo, siamo noi, solo noi, che un giorno potremo esclamare con Giobbe: “Io ti conoscevo per sentito dire, o Dio, ma ora i miei occhi ti vedono…” (Gb 42,4).
I testimoni, i santi, la fede degli altri, non ci bastano: abbiamo bisogno di un incontro decisivo, illuminante, unico, tra noi e Lui. Tutti prima o poi dobbiamo incontrare il Risorto; ma dobbiamo farlo di persona, niente e nessuno possono sostituirci in questo.
Solo allora, come Tommaso, anche noi potremo dire: “Mio Signore e mio Dio”. Anche la Maddalena ha detto: “Mio Signore; rabbonì, mio maestro”. Gesù stesso ha parlato di “Padre mio e Padre vostro” (Gv 20,17). È una espressione che indica un possesso esclusivo, un’esperienza personalissima, pur essendo comune a tutti quelli che incontrano Dio.
Quando alla domenica andiamo in chiesa per l’Eucaristia, andiamo appunto per rivivere questo nostro incontro personale, per alimentare la nostra relazione d'amore, insomma per incontrare, per vedere il nostro Amore.
Molte persone dicono: “Io vado a Messa quando ne ho voglia”. Errore: chi ama non può esprimersi così; dimostra chiaramente di non amare Gesù, perché quando due si amano sul serio, non vedono l’ora di incontrarsi! Molte persone vanno in chiesa, ma non ci sono con il cuore, con l'anima, con il canto, con la preghiera: non partecipano, non si espongono, non si lasciano coinvolgere. Ma così non c'è alcuna intimità con Dio, non c’è alcun incontro, nessuna relazione. Non ascoltando la Parola di Dio, dimostrano di essere refrattari a qualunque invito, di essere sordi, disinteressati, impermeabili a tutto, chiusi nella loro corazza di indifferenza; si distraggono per qualunque cosa, per i motivi più futili; non sanno osservare il silenzio esteriore, né tantomeno quello interiore; non c'è intimità tra loro e Dio; esserci o non esserci è la stessa cosa. È come andare dall'amata e non abbracciarla, non parlarle, non darle un bacio. Che amore è?
Invece il nostro andare in chiesa per l’Eucaristia, deve rispondere al bisogno di toccare il Signore, di sentirlo, di sperimentarlo, di rivivere con lui il suo estremo sacrificio d’amore sulla croce. Ci andiamo perché sentiamo il bisogno di accrescere il nostro rapporto di intimità con lui. Sentiamo il bisogno di mostrare anche noi le nostre mani ferite dalle contrarietà di ogni giorno, dai pensieri che ci turbano, che ci ossessionano, dalle ansie che impediscono di esprimerci, di essere noi stessi, di diventare come lui ci ha pensato; sono insomma tutte le paure, i litigi, le incomprensioni, le relazioni che non vanno, il panico che ci assale, i giudizi della gente. Abbiamo bisogno di disintossicarci dal male, dall'odio, dal dolore. Mostriamogli tutte queste ferite aperte, e ascoltiamo la sua voce che ci tranquillizza: “Pace a te; non aver paura; ci sono io, sta’ tranquillo”. Sono queste le parole che ci servono; ne abbiamo bisogno, ci ridanno pace, fiducia e amore per ripartire con vigore.
Ogni volta che andiamo a Messa mostriamo al Signore anche il nostro costato ferito: è la ferita del nostro cuore, la più profonda; è la ferita del nostro io, del non essere accettati dagli altri, dell'essere rifiutati, traditi, del non essere considerati nelle nostre necessità. È la ferita delle paure forti e onnipresenti, delle sensazioni amare che ci rincorrono implacabili giorno e notte; è la ferita del renderci conto di aver sbagliato tutto nella vita, di aver fallito gli appuntamenti più importanti, di non essere riusciti a crescere, di continuare ad essere, ancorché adulti, dei bambini sciocchi ed immaturi.
Offriamo umilmente alla misericordia divina questa nostra ferita, così grande, così profonda, così dolorosa. E aspettiamo fiduciosi le sue parole rassicuranti e consolatrici: “Ricevi la mia pace, non disperare, io sono con te; fidati, insieme a me tu potrai guarire, potrai risolvere ogni tuo problema, sanare ogni tua ferita; tutto si sistemerà; e se ciò non fosse possibile, non disperare, perché io continuerò comunque ad amarti sempre, come e più di prima!”.
A ben vedere, nella vita, noi abbiamo bisogno soltanto di questo: di sentirci capiti, apprezzati, amati da Dio. Abbiamo bisogno di sentirci dire che ce la possiamo fare, che la nostra dignità non è del tutto distrutta, che possiamo contare sempre nel suo aiuto, nella sua misericordia.
Allora, il nostro andare in Chiesa la domenica non sarà più un peso, non sarà più una tradizione noiosa, di cui faremmo volentieri a meno; sarà invece l’occasione settimanale attesa e gradita per incontrare personalmente Dio, per assicurargli il nostro amore, la nostra riconoscenza; per dirgli che senza di lui tutto è difficile in questo mondo, tutto è problematico; per chiedergli la sua benedizione: in una parola, la Messa diventerà allora il nostro appuntamento domenicale con Dio, per rinnovare con lui la nostra gioiosa esperienza di Risurrezione. Amen.


giovedì 29 marzo 2018

1 Aprile 2018 – Solennità di Pasqua: Risurrezione del Signore


«Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro» (Gv 20,1-9).

Pasqua, è il centro focale della nostra fede: “Cristo è risorto, ha vinto la morte”. Tuttavia, bisogna riconoscere che la gente in genere non capisce e non ama molto questa festa. Il Natale è più semplice: un bambino che nasce lo capiscono tutti; è una festa che riunisce le famiglie, richiama i parenti, gli amici, lo stare insieme; c’è un anno vecchio che muore, uno nuovo che nasce; un contorno di feste insomma che la gente ama molto. La Pasqua invece è meno sentita, meno coinvolgente, meno appassionante, forse perché prima dell’esplosione di gioia per il trionfo della Vita sulla morte, ci costringe a misurarci con la crudeltà di una crocifissione e di una morte orribile e violenta nei confronti dell’uomo/Dio, volutamente da noi cercata e deliberata. Per gli stessi apostoli la notizia della risurrezione di Gesù, sopraggiunta in quel momento di grande disagio e prostrazione, li ha colti di sorpresa; assimilarla ha richiesto un processo laborioso e difficile.
Come già nel racconto della passione, anche di questa esperienza, peraltro ripetutamente annunciata da Gesù, troviamo nel vangelo un resoconto ricco di particolari, di sentimenti, di stati d’animo, dai quali possiamo trarre alcune considerazioni.
Giovanni apre alle donne: la prima a rendersi conto che durante la notte doveva essere successo qualcosa di straordinario è Maria di Magdala. Già attraverso l’analisi delle prime parole del racconto possiamo in qualche modo risalire a quello che doveva essere lo stato d’animo di questa donna: non a caso Giovanni scrive che si recò al sepolcro “di mattino, quando era ancora buio”: una antinomia, questa tra mattino (luce) e buio (tenebra), con cui l’evangelista forse voleva in qualche modo descrivere proprio il contrasto di emozioni che si stavano accavallando in lei: nel buio più totale, nelle tenebre in cui era sprofondata alla morte del “suo” Gesù, ora si stava insinuando il pensiero che una nuova realtà, eccezionale, impensabile, unica: la luce intensa, la luminosità accecante, lo splendore soprannaturale del “giorno del Signore” le annunciava la sua risurrezione, la vittoria gloriosa della Vita sulla morte.
Una domenica mattina inquietante anche per i discepoli: messi in allarme dalla stessa Maria sulla “sparizione” del corpo di Gesù, Pietro e Giovanni si portano di corsa al sepolcro: ovviamente Giovanni, il più giovane, giunge per primo, ma non entra: aspetta che sopraggiunga anche Pietro, attardato dietro a lui per la fatica dell’età. È lui che entra per primo nella tomba, ma non vede; chi invece vede è Giovanni: ovviamente non si tratta qui di notare la presenza o meno di un “lenzuolo” ripiegato; l’allusione ha un significato ben più profondo, perché “vedere” sta per “credere”. Pietro e Giovanni sono le icone di due approcci nei confronti della fede completamente opposti: il primo rappresenta colui che vuol capire con la sua testa (Cefa), con il raziocinio; Giovanni invece, “quello che Gesù amava”, è guidato dall’amore, dall’intuizione, dal sentimento. Sia la mente che il cuore crederanno: ma la mente, il raziocinio, cerca di controllare il sentimento, cerca di contenerlo, perché il sentimento è come un’onda d’urto che travolge tutto. La mente serve per capire, per spiegare, per interpretare; l’amore invece proviene direttamente dal cuore, organo generatore di vita: l’anima, la vitalità, lo stupore, la fede, la conoscenza di Dio, sono percezioni, sono sentimenti che precedono la nostra esperienza: soltanto in seguito il raziocinio, la mente, spiegherà come e perché è successo. In parole povere succede la stessa cosa quando ci viene servita in tavola una bellissima torta: la mente, il raziocinio, cerca prima di tutto di individuarne i vari componenti, per stabilire se è più o meno buona: il cuore al contrario l’assaggia immediatamente, la gusta e gode subito della sua bontà.
Noi siamo Pietro, siamo il raziocinio, siamo la mente, quando non vogliamo dare spazio ai sentimenti che sono in noi, all’amore, alla Vita: vediamo tante cose, ma è come se non vedessimo nulla, perché tutto quello che vediamo non ci emoziona. Siamo invece Giovanni, l’amore, l’interiorità, il sentimento profondo, quando non solo “vediamo”, ma anche “capiamo” immediatamente. Continuiamo allora ad essere tanti Giovanni: quando ci relazioniamo con una persona cara, guardiamola negli occhi, entriamole dentro; cogliamo per prima cosa non tanto il suono delle sue parole, quanto le vibrazioni del suo cuore, la sua gioia o la sua tristezza, il suo slancio vitale, la sua meraviglia, il suo amore. Quando l’abbracciamo, “sentiamola”, riconosciamola dalla fragranza dei suoi sentimenti, dal profumo della sua anima. Quando preghiamo cantando, ascoltiamo le vibrazioni del nostro cuore: onde che scatenano infinite emozioni, che accarezzano le corde più intime della nostra anima. Quando siamo in chiesa, facciamo silenzio, allontaniamo qualunque pensiero, entriamo in noi stessi, ascoltiamo il battito del nostro cuore: è così che percepiremo forte e chiara la presenza di Qualcun altro dentro di noi.
Ogni tanto nel nostro quotidiano correre la vita, fermiamoci e ascoltiamoci. All’inizio magari avvertiremo solo il frastuono di mostri e demoni che si accalcano per avere visibilità e ascolto; ma se avremo pazienza, nella calma, nel silenzio, nella preghiera, scopriremo la tanto trascurata ma inconfondibile presenza del Dio Amore, sorgente in noi di inesauribile vita e luce.
Allora capiremo che ogniqualvolta pensandoci sconfitti esclamiamo: “È tutto finito”, in realtà qualcosa di nuovo sta prendendo vita in noi. Un qualcosa che ci pone su un livello superiore di vita, che esige da noi un salto evolutivo, una crescita spirituale. Sì, perché questa cosa si chiama fede. Avere fede significa infatti fidarci di Dio fino all’abbandono totale di noi stessi, perché in tutto ciò che ci succede, c’è sempre la sua mano benefica che corre in nostro aiuto, cercando di plasmarci, di forgiarci, di purificarci. Tutto quanto ci succede nella vita, è sempre un bene per noi: certo, a volte è doloroso, duro, per niente piacevole, ma è pur sempre necessario, perché tenta di farci andare nella giusta direzione.
Dal punto di vista materiale, storico, una crisi è sempre un salto nel buio, è sempre difficile, dolorosa, non piace a nessuno, tutti vorremmo evitarla: separarsi definitivamente da una persona cara è sempre e comunque molto doloroso; vedere distrutti i progetti di una vita è profondamente destabilizzante; constatare, dopo tanti anni di lavoro e di sacrifici, di aver sbagliato tutto, è davvero deludente. Ma se vediamo le cose dall’altro punto di vista, se riusciamo a fare il salto di qualità della fede, allora tutto è risurrezione, tutto è vita. Ogni fatto grave, per quanto grave sia, per quanto ci costringa nel buio più totale, con la fede si trasforma in “luce”, diventa vita, diventa resurrezione.
Dobbiamo guardare le cose sempre con occhio sereno, con un’ottica positiva. Se leggiamo l’oggi alla Luce dell’Amore di Dio, ci accorgiamo infatti che tutto acquista autenticità, tutto ha un suo motivo, un suo lato buono; anche il male più assoluto, nella sua ineluttabilità, può trasformarsi in un bene concreto: tutto può diventare recuperabile, riscattabile; tutto può diventare “meritorio”. Dipende solo da noi. Ecco perché dobbiamo vivere sempre, ogni sacrosanto giorno, da veri protagonisti, entusiasti della vita, con iniziative sempre nuove, consapevoli però che il “mondo” non è nostro, che non ci appartiene, che risponde a regole che trascendono la nostra intelligenza. Dobbiamo imparare a guardarlo soltanto come nostra dimora temporanea: perché è in esso che dobbiamo lavorare, è in esso che dobbiamo cambiare, è su di esso che saremo giudicati. Prima o poi verrà quel giorno in cui la morte, bussando alla nostra porta, ci chiederà il “consuntivo” del nostro lavoro: è il normale corso della vita: inutile abbandonarci alla disperazione, inutile opporsi, inutile dimenarsi: non esistono cavilli legali o avvocati a cui ricorrere. Allora capiremo che tutto quanto pensavamo “nostro”, ci era stato dato soltanto in “concessione”, “in uso”. Niente e nessuno ci appartiene: con nulla siamo nati, con nulla moriremo. Assolutamente soli.
Anche per gli apostoli la “morte” corporale di Gesù rappresentava una tragedia immane, la fine di tutto il loro mondo; non erano ancora in grado di pensare che la morte fosse per l’umanità preludio di vittoria e di vita, che la morte fosse in realtà una “rinascita”. Fu lì, al sepolcro, che iniziò la loro scoperta incredibile, irrazionale, indicibile: che cioè si erano sbagliati su tutto, che le cose non erano come loro pensavano, che la realtà andava ben oltre: che la loro vita materiale, insomma, era destinata a trasformarsi in una nuova Vita più radiosa, più bella, più intensa, una vita senza fine, spirituale, eterna.
Ebbene, sia questo anche il miracolo della nostra Pasqua: un miracolo che ci contagi, ci converta, ci cambi in profondità; la nostra “Risurrezione” ci permetta di cogliere l’invisibile nel visibile, di guardare sempre la vita con gli “occhi speciali” della fede, di vivere a piene mani l’Amore; ci convinca soprattutto che Dio è sempre presente qui, accanto e dentro di noi: nostro compito è soltanto quello di cercarlo, di trovarlo, di conoscerlo, di amarlo. Tutto qui. Amen.



giovedì 22 marzo 2018

25 Marzo 2018 – Domenica delle Palme


«Mancavano due giorni alla Pasqua e agli Azzimi, e i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di catturarlo con un inganno per farlo morire…» (Mc 14,1-15,47).

La Passione di Gesù è la storia di un uomo perdutamente innamorato di Dio e degli uomini. Questo suo amore profondo e l’assoluta fedeltà ad esso, lo portarono all’estrema conseguenza di accettare docilmente una delle morti più tremende e dolorose.
Egli ha vissuto l’intera sua vita con passione, con intensità, con amore: sensibile e attento a tutto ciò che gli capitava intorno, gioiva di fronte alla bellezza, all’amore, al positivo, commuovendosi e piangendo di fronte al dolore, alla malattia, alla morte. Ma è nel racconto della sua “Passione”, che la Liturgia ci propone questa domenica, che questo amore, questa bontà, questa generosità, questa mitezza, emergono nella loro potenza.
Riflettiamo insieme allora su questo tratto conclusivo della vita di Gesù, in questo suo cammino finale verso il sacrificio della croce, per ritrovare anche noi la forza necessaria per compiere questo nostro viaggio al suo seguito, per poter vivere con altrettanta carità la nostra missione di cristiani. Riviviamo le varie situazioni del racconto, confrontandoci con la condotta dei personaggi coinvolti, per capire come noi affrontiamo le nostre esperienze di vita, con quali atteggiamenti, con quale fiducia o paura. In loro possiamo rivederci, possiamo ritrovarci, per capire meglio, e più in profondità, la nostra vita. Sono dei simboli importanti, delle icone stampate a fuoco, che in qualche modo vivono in ciascuno di noi.

1) I Sacerdoti e gli scribi cercano il modo di catturare Gesù con un inganno, per farlo morire”. Tramano nell’ombra, il loro complotto deve rimanere riservato, segreto, nulla deve trapelare in pubblico; l’iniziativa deve partire da altri.
Fin dall’inizio del mondo, il male ama l'inganno, il nascondersi, il camuffarsi; si insinua pericolosamente nella vita delle persone, e queste non se ne accorgono; manipola le notizie, gestisce le informazioni, falsifica la realtà, nessuno se ne deve accorgere.
Il Figlio di Dio è stato condannato e ucciso come un impostore; la sua condanna è stata costruita anche per lui sulle falsità, sull’imbroglio, sull’indifferenza generale. Il mondo purtroppo è succube del male, ne è dominato: ma gli artefici non sono tanto le armi, le guerre, quanto l'odio, l'angoscia, la paura, la disperazione che ogni uomo cova dentro di sé, nel suo cuore: siamo noi, in casa nostra, nel nostro animo, che fomentiamo le guerre mondiali, che alimentiamo l’odio universale. Dobbiamo rendercene conto e darci subito da fare: ovviamente non riusciremo mai da soli a cambiare il mondo, ma sicuramente riusciremo a cambiare noi stessi, il nostro piccolo mondo, poiché il vero e unico territorio su cui siamo sovrani indiscussi è il nostro cuore; solo lì potremo decidere se fare della nostra vita un campo di battaglia o un’oasi di pace.
E se in certi momenti saremo presi dallo sconforto poiché l’impresa ci sembrerà irrealizzabile, abbiamo pur sempre alla nostra portata un’unica alternativa, valida e immediata: amare, amare, semplicemente amare; stare vicini a chi sta peggio di noi, a chi più di noi ha bisogno di conforto e comprensione: in una parola possiamo sempre essere presenti e determinanti nel mondo con il nostro amore, offerto discretamente, nel silenzio, nell’umiltà. Perché è soltanto attraverso un amore vero, generoso, spassionato, sincero, fraterno, che possiamo esercitare il nostro potere: perché questo è l’unico potere autentico, totale, indiscutibile, che nessuno al mondo potrà mai toglierci o limitarci.

2) Giuda: “promisero di dargli del denaro”. Com'è stato possibile che uno di quelli che seguivano, che amavano Gesù, lo abbia tradito? Com'è stato possibile che uno di quelli che per Lui avevano lasciato tutto lo abbia consegnato ai nemici per quattro soldi? Rimane un mistero. Marco accenna esplicitamente al denaro. Cosa non si fa per denaro! Chi non si vende per denaro? Per denaro si arriva a vendere ciò che abbiamo di più prezioso, di più caro, di più importante: il nostro cuore, la nostra anima, i nostri affetti, il nostro tempo. Ma quando abbiamo svenduto la nostra vita, cosa ci rimane? Nulla: perché a quanti barattano la propria vita, la propria dignità, per avidità di ricchezze, per accumulare denaro, non rimarrà altra fine che quella di impiccarsi, disperati come Giuda. Il denaro è solo un'affascinante illusione che conduce irrimediabilmente l’uomo alla disperazione: quando infatti, credendo di aver tutto, di poter tutto, si renderà conto che in realtà non ha nulla, non ha mai vissuto, mai amato, allora capirà di aver inseguito solo un'illusione, una chimera, un sogno. Ma sarà troppo tardi: vivrà nella morte più totale.

3) L’ultima cena: “Prendete! Questo è il mio corpo”. Il sinedrio ha già deciso di condannare Gesù, mentre Lui, come ogni buon ebreo, sta celebrando la Pasqua annuale. Tutto si svolge secondo il solito rito: un rito peraltro conosciuto molto bene da tutti i dodici, fin da quando erano bambini: consisteva nel fare “memoria” della liberazione del popolo dalla schiavitù e del loro passaggio attraverso il Mar Rosso. Ma questa volta alla solita preghiera Gesù aggiunge due frasi inedite, sconosciute: “Prendete questo è il mio corpo” e “questo è il mio sangue, il sangue dell'alleanza versato per molti”. Praticamente con l'immagine del pane spezzato e del vino versato, Gesù fa della sua vita un dono. Come a dire: “Sì, sono io quel pane che viene spezzato e distribuito a tutti. Sono io quel vino che viene versato perché tutti ne bevano. Io desidero che dal mio morire altri gustino la vita. Desidero che la mia vita, il mio corpo e il mio sangue, siano ebbrezza, gusto, fuoco d’amore per altre persone. Voglio che la mia vita, che sta per finire, abbia un senso, diventi per voi e per il mondo intero, alimento, vita, sapore, gusto, senso, felicità”.
È così che Gesù affronta la sua morte redentrice. Esternamente nulla cambierà. Ma tutto sarà diverso, perché ciò che sta per accadere, ora ha un senso ben preciso. Anche perdendo la vita non morirà. La sua morte produrrà per sempre nuove vite. Cosa poteva Gesù donarci di più? Non ci ha donato solo delle belle parole, dei bei miracoli, dei bei discorsi. Ci ha donato tutto se stesso. Questo è il vertice della vita: “Non ti dono la mia intelligenza, la mia simpatia, i miei soldi, il mio fascino; ti do in regalo tutto me stesso”. L'amore è donarsi. In ogni eucaristia noi in sintesi celebriamo proprio questo: un Amore donato.

4) Il Getsemani: “Padre, a te tutto è possibile: allontana da me questo calice! Tuttavia non ciò che io voglio, ma quello che tu vuoi”. Gesù avrebbe potuto fuggire, ma decide di andare fino in fondo alla sua missione. Si ritira per parlare con il Padre: è terribilmente angosciato di fronte a ciò che sta per accadere: è l'angoscia di fallire, di sentirsi tradito, di finire la vita in un supplizio terribile, la croce! In questo momento sente tutta la sua solitudine. Nessuno dei suoi amici, neppure quelli più intimi, Pietro, Giacomo e Giovanni, riescono a stargli vicino. Dormono. Non capiscono, non colgono il dramma, cosa ci sia in questione, la sua profondità. Vivono in superficie, non si accorgono di ciò che sta accadendo. Sono addormentati, anestetizzati, così presi dalle loro piccinerie da non “vedere” la tragedia che sta per compiersi.
Gesù si accorge che non può contare su nessuno. È solo. Nessuno gli è vicino, nessuno lo comprende, nessuno lo consola. Eppure Gesù ha fiducia in loro.
L'uomo, nel suo profondo, è buono; ama la verità, la libertà, la vita. Se vincerà le sue paure, la sua angoscia, potrà vivere senza tradire la sua vita. Gesù “vede” tutto questo: ora lo tradiscono, è vero, ma in prospettiva un giorno lo testimonieranno: per questo, nonostante tutto, confida in essi!

5) Il tradimento di Pietro: “Anche se tutti saranno scandalizzati, io non lo sarò”. Pietro è la “roccia”, è uno che ostenta sicurezza in ogni situazione. È un uomo istintivo, d'azione, un uomo che, dice lui, non teme nessuno. In realtà egli rappresenta l’uomo banale, superficiale, che dimostra di non conoscere se stesso, uno che facilmente si autoesalta, salvo poi alle prime difficoltà dissolversi nel nulla, dimostrando tutta la sua fragilità. Finché le cose vanno bene, finché sono semplici, seguire Gesù è un’impresa facile e piacevole. Ma quando c'è da fare sul serio, quando c’è da mettere in gioco la propria reputazione, la propria immagine, quando c’è da cambiare radicalmente lo stile di vita, in una parola quando è c’è da convertirsi, quando c’è da affrontare la gravità delle proprie scelte, tutti, noi per primi, ci comportiamo esattamente come Pietro: neghiamo l’evidenza, nascondiamo la verità, facciamo finta di niente, tradiamo i nostri ideali, i nostri propositi, la nostra vocazione; quando ci mettono con le spalle al muro, quando non abbiamo vie di scampo, siamo tutti come Pietro: ci irritiamo, imprechiamo, spergiuriamo; qualunque scusa è buona per camuffare la nostra inaffidabilità, la nostra pusillanimità. Preferiamo rifugiarci nell’anonimato, confonderci tra la folla! È triste ma è così. Pietro però, rientrato in sé, “flevit amare”, pianse amaramente.

6) La crocifissione e la morte. “Tutto è compiuto; e chinato il capo morì”.
Qual è il senso del patibolo, della crocifissione e della morte di Gesù? Dio viene appeso ad una croce. Con Gesù muoiono tutte le speranze di chi aveva lottato con lui, di chi aveva coltivato il desiderio e l'attesa di qualcosa di nuovo, di diverso, di vero, per lui e per questo mondo.
Cosa si può provare nel vedere chi si ama appeso ad una croce?
La croce è lo scontro fra due religioni: quella di Gesù e quella degli ebrei. La religione dei farisei, degli scribi, dei grandi sacerdoti del Tempio, è la religione della forma, dell’apparire, del mascherarsi. Qui contano i grandi numeri, l'istituzione, l'ordinamento e l'obbedienza. Non importa se le leggi distruggono le persone o le appesantiscono di sensi di colpa o di fardelli insopportabili. Ciò che conta è la legge, il rispetto ossequioso alla norma. Più cose fai e più sei bravo. Gesù, invece, ama la vita, non la sofferenza. Gesù dà voce alle persone, le ascolta, dona ogni attenzione ai bambini, alle donne, agli esclusi dalla società; nessuno è impuro per Gesù: lebbroso, prostituta o pagano che sia, perché tutti per lui sono figli dell'unico Padre. Gesù non vuole che gli uomini si reprimano o vivano al di sotto delle loro possibilità. Gesù vuole e dice a tutti che molti mali possono essere guariti, che tante infermità del cuore e dell'anima possono essere risanate, perché noi viviamo e siamo fatti per la felicità profonda e vera. Gesù vuole che siamo umani: che non c'è niente di quanto viviamo che sia indegno agli occhi di Dio, da doversi nascondere; che davanti a Dio possiamo presentarci veramente per quello che siamo, senza falsi teatrini o belle maschere. Questa è la religione di Gesù; questa è la religione che le autorità del popolo ebreo hanno tentato di crocifiggere, di eliminare, di distruggere e di far morire. Ma ciò che viene da Dio non muore, non può morire mai. Può essere perseguitato, ucciso, deriso, umiliato, annientato, ma non può morire. Dio è l'unica realtà. Ciò che viene da Lui; chi si affida a Lui, non muore.

7) Le donne continuano ad osservare: “Vicino alla croce stavano suo madre e la sorella di sua madre…”.
L'amore non si arrende, l'amore non può credere alla fine, alla morte. Chi vive nell'amore conosce l'eternità. Anche quando tutto sembra dire il contrario, anche quando tutto sembra finito, l'amore conosce l'eternità. L'amore vuole il “per sempre”. Queste donne non si arrendono all'evidenza dei fatti perché conoscono l'evidenza del cuore, dell'anima, della vita e di Dio. E proprio per questo loro sperare al di là di ogni speranza, per questo credere al di là di ogni ragionevole fede, per questo amare al di là della fine, saranno loro le prime testimoni della resurrezione. Avevano visto bene: l'amore è più forte di tutto. Amen.




giovedì 15 marzo 2018

18 Marzo 2018 – V Domenica di Quaresima


“In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna”.  (Gv 12,20-33).

Il vangelo di oggi ci introduce nel mistero della vita. Dapprima, con l’immagine del seme che cade in terra, Gesù ci spiega le grandi leggi dell’esistenza: crescere è doloroso, faticoso, a volte è un po’ come morire; per diventare “grandi”, adulti, bisogna infatti morire a tante idee romantiche, a tante illusioni, e maturare. Una vita ha senso solo se è donata, spesa, impiegata per qualcosa di grande, altrimenti è sprecata, fallita. Seguire la propria vocazione costa a volte enormi sacrifici. Anche Gesù, uomo come noi, vive la fatica di essere fedele alla sua vocazione, di andare fino in fondo alla sua missione; anch’egli vive la paura della morte, ma come il seme che cade in terra, sceglie di morire per portare quel suo frutto, che è la salvezza per il mondo.
Giunto dunque a Gerusalemme, Gesù si trova di fronte al momento cruciale della sua vita: deve decidere se fermarsi o andare fino in fondo. Finché ha predicato in Galilea ha avuto scontri e nemici, ma la Galilea era lontana da Gerusalemme, dal centro. Non gli aveva mai creato grossi problemi. Gesù sapeva che fino a quando agiva in periferia, la sua vita non era in pericolo; i suoi nemici non avrebbero avuto alcun motivo di perseguitarlo fino a quando il suo messaggio non avesse colpito in maniera esplicita e diretta i loro interessi religiosi e politici. Ora però deve decidere se continuare la sua missione anche a Gerusalemme, nella città “santa”, centro della religione, centro del potere. E sa che è una scelta senza ritorno: una volta presa, non sarà più come prima, mai più.
La vita ci pone ogni giorno davanti a delle scelte: a volte semplici, a volte un po’ più complesse. Prima o poi, però, arriverà anche per noi il momento delle scelte difficili, di quelle senza ritorno: scelte che non ci offrono alternative, che vanno fatte in quel particolare momento o mai più. Sono momenti decisivi in cui, con le nostre decisioni, diamo un senso alla vita, le diamo una forma, la nostra; la personalizziamo.
C’è un termine che appare ripetutamente nel testo, il cui significato è duplice: è “glorificare”, “gloria”, in greco doxa. Ora, quando noi lo leggiamo, pensiamo immediatamente alla fama, all’essere famosi, allo stare sulla cresta dell’onda, conosciuti, stimati, adulati, venerati. Pensiamo alla fama e agli onori tributati ai vip, ai divi della tv o ai campioni dello sport e della musica.
Ma Giovanni, nel suo vangelo, quando parla di “gloria” allude al fatto che Dio si rivela nella nostra vita, si rende manifesto, visibile, trasparente. È in questo senso infatti che la “gloria di Dio” è in Gesù: Dio, cioè, si è reso visibile in Gesù, e lo ha fatto come in nessun’altra persona. Con il suo vivere, il suo agire, il suo morire, Gesù ci ha fatto costantemente vedere chi è Dio: in particolare Egli fa apparire Dio, la gloria, quando guarisce, quando accoglie i peccatori, quando resuscita Lazzaro, quando vive la trasfigurazione, quando dice le beatitudini; ma lo fa soprattutto nella croce, perché è nella croce che il Figlio di Dio, non sottraendosi alla morte e a quel tipo di morte, raggiunge il culmine della “gloria”, amandoci fino in fondo, donandoci la sua vita perché noi potessimo vivere: «Se il “bar” (chicco di grano), caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, porta molto frutto…»; “bar” in ebraico, oltre che “chicco di grano”, significa anche “figlio”: Gesù, dicendo queste parole, alludeva a se stesso, sapeva perfettamente che era Lui, il “Figlio”, a dover morire per portare molto frutto. È Lui, infatti, che giorno dopo giorno, accetta questa sua missione dolorosissima, ma inevitabile. In qualche momento, è vero, viene assalito dall’angoscia, tentenna, perché Egli odia la morte: ma non arriva mai a pensare di potersi sottrarre, perché sa di dover dimostrare al mondo la “gloria” del Padre.
«E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Gesù ci anticipa la fine alla quale sta andando incontro; è uno spaccato della sua angoscia. Giovanni non racconta il Getsemani, non descrive la passione, l’angoscia di Gesù, come fanno gli altri evangelisti. Lo fa qui. Qui c’è tutto il turbamento, la passione, di Gesù. In questi pochi versetti, il vangelo concentra tutta la missione del Figlio di Dio, che è poi anche la nostra storia personale. Gesù è pronto ad annunciare agli uomini il nuovo messaggio di amore e speranza, di un Dio, Padre misericordioso; ma ora si trova ad un bivio: o fermarsi qui, tradire la sua missione evitando la croce, oppure proseguire fino in fondo e sacrificare la propria vita affrontando una morte orrenda.
Questo è il perenne aut aut di quanti vogliono seguire il suo esempio: essere fedeli alla volontà del Padre e alla propria vocazione costa più di qualunque altra cosa: perché ci sono momenti in cui tutto sembra finire, tutto sembra cadere, tutto sembra illusorio. Un solo conforto, sempre: la certezza dell’amore del Padre. Di “nostro” Padre.
Si, perché anche noi siamo “bar”, siamo “figli” dello stesso Padre di Gesù; ma soprattutto siamo come Gesù il “seme”, siamo quel “seme” che Egli ha piantato nel nostro cuore col Battesimo, il “seme” della Sua amorevole presenza: un atto d’amore il suo, che ci impegna seriamente durante tutto l’arco della vita: perché non possiamo vivere ignorando quel seme, o peggio, rendendolo inefficace, soffocandolo, uccidendolo: perché in questo modo siamo noi a crocifiggere nuovamente Gesù, siamo noi a soffocare Dio tra i rovi della nostra indifferenza, a uccidere la sua Voce.
È un seme, il nostro, che deve costituire la molla, lo slancio vitale che determina la nostra maturazione spirituale e umana: un seme quindi che dobbiamo metabolizzare, curare, che dobbiamo far crescere, che dobbiamo portare a maturazione.
È chiaro che per poterlo fare, dobbiamo “estirpare” dal nostro io, dalle nostre radici, qualunque erbaccia: il nostro narcisismo, il nostro egoismo, il nostro orgoglio; dobbiamo in una parola prendere coscienza della nostra “missione”, dobbiamo fare i conti con la nostra vita.
Purtroppo noi non amiamo misurarci troppo con la realtà, la temiamo, perché spesso ci sconvolge, distruggendo l’immagine di “persone brave e buone” di cui andiamo tanto fieri; molti di noi infatti vivono soltanto per loro stessi, sono semi” che marciscono senza portare frutto. Sprecano il loro tempo per cose inutili, senza alcuna importanza; sono esclusivamente concentrati su loro stessi: si credono bravi, impegnati, coraggiosi, ma in realtà sono narcisisti, codardi, pieni di paura. La loro vita non è di aiuto a nessuno, non si può imparare nulla da loro, non hanno maturato nulla. Non c’è in loro nessuna saggezza, nessuna profondità. Passano senza lasciare traccia, sono vite inutili, vuote, senza significato; hanno ricevuto in dono la Vita, ma non l’hanno donata al prossimo. Moriranno tristi perché potevano essere alberi carichi di frutti e di vita, ma hanno lasciato intorpidire il seme dal gelo del loro egoismo; hanno avuto paura di esporlo al sole dell’amore. Frutti acerbi è il loro raccolto. Sono dei falliti.

Il vero servizio, la vera carità, è mettere in circolo i frutti che abbiamo dentro; ma se dentro non abbiamo niente, se la nostra anima è un deserto arido, cosa possiamo donare?
Noi siamo vita, la nostra fecondità è dare vita, far nascere la Vita. Solo così ci sentiremo compiuti, solo così vedremo la nostra forza, il nostro seme, rinascere, crescere e fiorire negli altri; solo così ci sentiremo generatori di altra Vita; solo così ci sentiremo una piccola parte attiva di quel “donarsi all’infinito” che chiamiamo Dio. Amen.



giovedì 8 marzo 2018

11 Marzo 2018 – IV Domenica di Quaresima


«Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,14-21).

Il testo della Parola di oggi ci riporta la conclusione del colloquio che Gesù ha intrattenuto con un certo Nicodemo. Ora, di Gesù sappiamo tutto, ma chi è questo Nicodemo? Per capire meglio e apprezzare questa pagina del vangelo è necessario fare la sua conoscenza. Giovanni lo considera un personaggio molto importante, anzi lo definisce “maestro”, un titolo che in tutto il suo vangelo, egli riconosce soltanto a due persone: a Nicodemo appunto (Gv 3,10), e a Gesù (Gv 13,14). Nicodemo è un fariseo, un dottore della legge di Israele, uno studioso molto apprezzato e seguito dal popolo, un dialettico di grande abilità oratoria, convinto dell’infallibilità delle sue argomentazioni, fondate sulla sua profonda conoscenza del testo sacro e della tradizione. Il sapere però, per quanto enciclopedico, non è tutto nella vita! Anzi a volte la sua vastità costituisce un serio intralcio al raggiungimento di una esistenza serena, soddisfatta, felice. Proprio per questo Nicodemo stava attraversando una crisi dottrinale profonda, aggravata anche dalle notizie che gli giungevano sulla dottrina e sulle opere straordinarie di questo “nuovo maestro”.
Ora, noi sappiamo che tra Gesù e i farisei non scorreva buon sangue: tra loro non c'era mai stata alcuna condivisione né tanto meno qualche convergenza di vedute: oltretutto, pochi giorni prima, un Gesù particolarmente furioso aveva provveduto a “purificare il tempio” da commercianti, venditori, ladri e quant’altro, che operavano in stretto accordo con le autorità religiose: farisei, scribi, grandi sacerdoti. Un grave affronto pubblico ricevuto direttamente in “casa loro”, che aveva ancor più acuito la loro rabbia e il desiderio di vendetta. Per questo Gesù è costretto ad adottare un comportamento più cauto, sapendo che qualunque sua parola o movimento può venire strumentalizzato per combatterlo, ferirlo, condannarlo.
Un clima piuttosto pericoloso che indubbiamente valorizza l’iniziativa del fariseo Nicodemo di incontrare Gesù. A differenza dei suoi colleghi, però, egli è un osservatore attento, scrupoloso e imparziale del “fenomeno” Gesù: la sua vita, i miracoli, gli insegnamenti, il suo comportarsi in maniera benefica e misericordiosa verso tutti, hanno già in qualche modo minato le sue certezze, procurandogli dubbi e interrogativi sia sull’origine divina che sul ruolo di questo sedicente messia: da studioso serio, onesto e meticoloso qual era, egli vuole vederci chiaro.
E va da Gesù in piena “notte”. Come mai Giovanni sottolinea l’orario “notturno” di questo incontro? Vuole forse indicare qualcosa? In genere egli usa il termine “notte” quando vuol mettere in evidenza l’antitesi insanabile tra le “tenebre” della notte, in cui operano le forze del male (Giuda per esempio esce dal cenacolo in piena “notte” per tradire Gesù), e la luce solare, luminosa, trasfigurante del giorno, in cui Gesù conduce apertamente la sua azione pastorale.
In questo caso però ci sono due spiegazioni più plausibili: o è stato lo stesso Nicodemo a scegliere la “notte” per non farsi scoprire da qualcuno del sinedrio o del popolo in un colloquio privato col “nemico”, screditando così la sua integrità professionale di personaggio pubblico, oppure con questo termine l’evangelista ha voluto descrivere lo stato d’animo di Nicodemo che, assalito da dubbi profondi, si rende conto di non possedere argomenti per condannare il nuovo corso della predicazione di Gesù: la sua mente pertanto brancola nel buio della notte, è confuso e sente vacillare le sue “vecchie” sicurezze, prive di luce e di speranza.
L’inizio del suo colloquio fa pensare più a questa seconda ipotesi: “Sappiamo (parla a nome dei farisei) che sei un maestro venuto da Dio; nessuno può fare i segni che tu fai, se Dio non è con lui” (Gv 3,2). In pratica riconosce molto onestamente la possibilità che Gesù sia veramente di origine divina. Ma qui si blocca, non sa andare oltre. La sua situazione personale è complicata e non sa come affrontarla. Prende tempo, ha timore di esternare i suoi problemi, i suoi dubbi, e si tiene sulle generali. Sente che gli manca qualcosa, ma non sa cosa. Non conosce la natura di questo profondo malessere; soprattutto non capisce perché questo suo “bisogno di verità” sia diventato improvvisamente così tanto urgente.
Anche se al suo esterno non traspare nulla, Gesù ha già capito tutto, non gli servono tanti discorsi, egli conosce perfettamente l’assillo di quel poveretto: “caro amico, è vero: la tua vita, così com’è, non ti soddisfa, non ti offre soluzioni valide; nessuno, infatti, può vedere e capire il regno di Dio, “se non colui che nasce dall’alto”; un’espressione oscura, questa di Gesù, che mette ancor più in crisi il suo interlocutore: perché in greco ànothen”, ha due significati diversi: uno di luogo (“dall’alto”) e uno di tempo (“di nuovo”). Nicodemo ovviamente non sa cosa rispondere; prende per buono il significato temporale del termine, e replica: “Come può un uomo nascere di nuovo se è già vecchio? Non può mica rientrare nel grembo di sua madre e nascere un’altra volta! (Gv 3,4). Non si accorge di aver travisato il senso del discorso. A questo punto Gesù cerca di illuminare la sua mente in difficoltà, di chiarire pazientemente il suo equivoco: “È vero, tu sei già nato, ma è stata tua madre che ti ha fatto nascere: non sei stato tu a voler nascere, non l’hai scelto tu. È opera sua, non tua. Tu invece devi fare una seconda nascita: questa volta devi essere tu a decidere di “partorirti”, di nascere ad una vita nuova: come? modificando radicalmente quello che sei ora, realizzando tutto il potenziale che c’è in te, espandendo e alzando le tue vedute, affrancandoti dalla tua mentalità legalistica, ormai superata. In altre parole devi cambiare, devi rinascere non dalla carne ma dallo Spirito per vivere una vita completamente nuova. E questo dipende solo da te, da nessun altro. Sarà una nascita dolorosa: ma questa volta sarai tu a soffrire, non tua madre; sei tu che devi porre fine a questa tua vita materiale, per rinascere ad un altro mondo, un mondo completamente diverso, un mondo in cui regna la Libertà, l’Amore. Nel tuo mondo attuale tutti dicono di vivere: ma il loro è un sopravvivere; solo i rinati nello Spirito vivono realmente”.
“Rinascere dall'alto” (e non di nuovo!) è quindi un’altra cosa: vuol dire vivere in una prospettiva spirituale, in una prospettiva più alta, più ampia, seguendo le ispirazioni dello Spirito. Se non viviamo in questa prospettiva, rimaniamo radicati nella materialità della vita; rischiamo cioè di vivere unicamente per i soldi, per il successo, per il lavoro, per la carriera, per il divertimento, la famiglia, i figli, il coniuge: rischiamo di trasformare tutte queste cose nella nostra unica missione, nel nostro unico scopo di vita.
Invece non dobbiamo mai dimenticarci chi siamo (figli di Dio), da dove veniamo (dall'Alto) e dove andiamo (nell'Amore di Dio). Non siamo qui per caso o per sbaglio: siamo qui per un motivo ben preciso, un motivo specifico.
Una risposta, quella di Gesù, che segnala la necessità di adottare un serio programma di vita. Dobbiamo cioè impegnarci a “credere”; dobbiamo “fare luce” in noi, sulla nostra vita; dobbiamo smetterla di vivere ignorando i problemi, di vivere sopravvalutando le nostre risorse, le nostre forze; non dobbiamo più vivere nell’ignoranza, nell’indifferenza, convinti, magari, di essere dei buoni cristiani, addossando agli altri, alla società, a questo mondo, la colpa del nostro malessere. Non illudiamo noi stessi, siamo deboli e insicuri. Non fingiamo il contrario, ostentando una superiorità che non c'è. Facciamo chiarezza, dentro di noi, introduciamo Luce, e capiremo che non siamo soli, che Lui è dentro di noi, che l’Infinito abita nel nostro finito.
Purtroppo noi abbiamo lo sguardo sempre fisso per terra e non ci accorgiamo della realtà meravigliosa che ci circonda. Abbiamo una visione superficiale, limitata, terrena delle situazioni. Siamo completamente presi dai nostri stupidi problemi, dai nostri fastidi personali, senza accorgerci che giriamo soltanto intorno a noi stessi. Lasciamo da parte le nostre banalità (come mi vesto, cosa mangio, che telefonino, che televisore, che computer, che auto mi devo comprare…). Non angosciamoci per le stupidaggini. Vale la pena rovinarci la vita per queste cose? Ci sono nella vita tragedie ben più dolorose da superare!
Guardiamo allora in alto, perché solo guardando in alto, verso Dio, potremo uscire vincitori; con Lui potremo superare ogni cosa; con Lui potremo distruggere qualunque ombra della notte. 
“Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito…”. Ecco: quando ci sentiamo angosciati, soli, depressi, disperati, ricordiamoci di queste parole di Gesù, meditiamole nel profondo del nostro cuore e diciamoci: “Sì, Dio mi ha amato così tanto, da sacrificare suo Figlio proprio per me”. Proviamoci. Sicuramente ci sentiremo più al sicuro, più protetti, più amati. Amen.




giovedì 1 marzo 2018

4 Marzo 2018 – III Domenica di Quaresima


«Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete.
Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!» (Gv 2,13-25).

Il Tempio di Gerusalemme non era l’equivalente delle nostre chiese. Era un luogo sacro esclusivo, il più santo della terra, l’unico in cui Dio si manifestava. In esso si svolgevano le sacre liturgie, si bruciava l'incenso sacro a Jahweh, si offrivano sacrifici cruenti; in esso ogni pio ebreo convergeva da tutta la Palestina per celebrare la Pasqua.
Anche Gesù, raggiunta a tale scopo Gerusalemme, si reca immediatamente al tempio, aspettandosi di incontrare tante altre persone pie che volevano adorare Dio, famiglie ridotte che magari si stavano organizzando tra loro per scegliere l’animale da offrire in comune come loro vittima pasquale: era infatti obbligatorio consumare tutta la carne dell’animale offerto, per cui le famiglie poco numerose si riunivano tra loro per poter adempiere l’obbligo. E invece cosa vi trova? Affaristi, commercianti, cambiavalute, sensali, venditori di buoi, di pecore, di colombe. Da luogo sacro di preghiera si era trasformato in un vero e proprio mercato, centro di guadagni sporchi e di indegni interessi. Per assicurarsi un introito di denaro sicuro e costante, i sommi sacerdoti e gli scribi, avevano pensato bene di introdurre l’obbligo di recarsi al tempio, oltre che per le feste tradizionali, anche per pagare il proprio “riscatto” mediante l’offerta di alimentari o di animali, ogniqualvolta si disobbediva a qualche precetto della legge. L'avidità di tali personaggi era agevolata oltretutto da una Legge meticolosissima che prevedeva innumerevoli divieti e obblighi, oltre ai 613 della sola Torah, per cui, essendo oggettivamente impossibile osservarli tutti e sempre, il povero peccatore era costretto a recarsi continuamente al tempio “per pagare” a Dio (meglio: ai tenutari del tempio) il proprio “sacrificio” di espiazione. Una iniziativa che procurava alle autorità religiose somme di denaro talmente ingenti, da trasformare il tempio in una delle più floride banche del Medio Oriente, nonché luogo operativo per una folla di veditori, commercianti e affaristi di ogni tipo.
Vedendo tanto degrado, Gesù si scaglia furiosamente contro quella gentaglia, rovescia i loro banchi e con una frusta li rincorre e li percuote, ripulendo definitivamente il tempio da tutti quei parassiti.
Un vangelo forte quello di oggi: conosciuto come “la purificazione del tempio” o “la cacciata dei venditori dal tempio”. Ma, se leggiamo attentamente tra le righe, il testo ci fa capire che Gesù non solo “purifica”, non solo “caccia” la gente indegna dal tempio, ma arriva addirittura ad eliminarlo: Gesù cioè di fronte a tale decadenza, a tale “distruzione” dell’antico tempio di Jahweh, propone in tre giorni la ricostruzione, la “risurrezione”, di un nuovo “tempio”, di una immagine di Dio completamente nuova, di un Dio che fino ad allora era sconosciuto a tutte le religioni: un Dio che non ha bisogno né di “offerte” né di sacrifici; un Dio che diventa lui stesso offerta e sacrificio a favore dell’uomo: un nuovo tempio, un nuovo culto, in cui non è più l'uomo che si toglie il pane di bocca per “offrirlo” a Dio, ma è Dio che si fa pane per nutrire l'uomo.
Con il Dio di Gesù finisce il tempo della schiavitù, dei servi, del “servire”: è Lui stesso che si pone a servizio dell’uomo; Lui è un Dio che non vuole più essere “pagato”, un Dio che non vuole più essere considerato un “banchiere”, Lui non concede grazie e protezione in cambio di offerte.
Non gli servono i nostri “contratti”, le nostre promesse, i nostri “voti”: “se mi concedi questa grazia, io ti faccio voto di non…”. Non funziona più così. Smettiamo allora di continuare ad “insultare” Dio con queste nostre misere contrattazioni. Egli non ha bisogno di trattare con noi, non è un “sensale”, non gli servono le nostre “condizioni”: egli vuole soltanto il nostro amore, un amore che sia autentico, generoso, filiale, riconoscente, gioioso: “Misericordia, amore io voglio e non sacrifici!”.
Un vangelo, che ci propone anche altre considerazioni importanti.
In particolare la prima è che il vero “culto”, la preghiera delle nostre chiese, non ha bisogno di essere spettacolarizzata, non deve essere esibita a beneficio degli altri, non gradisce una partecipazione puramente esteriore, non deve essere chiassosa, sguaiata, al pari di una rappresentazione teatrale. In Chiesa, casa di Dio, si va per incontrarlo, per ossequiarlo, per ascoltare la sua voce, i suoi consigli, per fare un carico speciale del suo amore, mangiando la sua carne di vittima immolata per noi. Le nostre messe, le nostre liturgie devono portarci insomma a fare una personale esperienza di Dio. Dobbiamo uscire dalla chiesa “confortati”, toccati nell’anima e nel cuore dal suo amore, dobbiamo uscire con nuovi propositi, con nuova energia, con nuova voglia di vivere, con il fermo proposito di essere più “cristiani”, più misericordiosi, più compassionevoli col prossimo; dobbiamo uscire più credibili nel testimoniare la nostra fede, sentendoci più protetti dall’amore di Dio.
A Gesù non interessano quelli che vanno in chiesa per apparire, che fanno l'elemosina per farsi notare, pensando con quella di sanare una situazione di vita cristianamente compromessa, che si guardano in giro come a cercare l’approvazione dei presenti: “Guardate tutti cos'ho fatto!(Mt 6,1-4). L'elemosina, di qualunque genere e di qualunque entità essa sia, deve essere fatta di nascosto, unicamente per amore: di Dio, della sua Chiesa, dei povero, dei sofferente, di quanti sono meno fortunati di noi.
Gesù detesta qualunque tipo di ostentazione: in particolare non sopporta proprio quelle persone che pregano per farsi ammirare, per esibire la loro devozione, per sbandierare ai quattro venti il loro fervore cristiano: “Quando pregate non fatelo per essere visti... non sprecate parole come i pagani...” (Mt 6,5-8). Gesù non tollera quella gente che digiuna, che prega, che frequenta gruppi di alta spiritualità solo per soddisfare il proprio amor proprio. Il loro cristianesimo non serve a nulla. Dio non vuole questo. Gesù definisce questa gente “ipocriti”, commedianti, attori, istrioni. Non si lascia ingannare dall’apparenza, come capita a noi uomini: lui capisce al volo se una persona agisce con amore e sincerità. Non è la preghiera che ci rende “divini”, ma è l'amore che mettiamo in essa. Soltanto quando la preghiera è mossa dall’amore diventa “divina”, gradita a Dio.
C’è poi un’altra considerazione suggerita da questo vangelo: quel tempio che Gesù ha purificato, quel tempio che Gesù pretende ordinato e immacolato, rappresenta la nostra anima, la nostra persona, la nostra vita. Sì, perché dentro di noi convive e agisce liberamente la stessa congerie di mercanti, cambiavalute, pecore, buoi, colombe: quell’ammasso di brutture che deturpavano il tempio di Dio. Siamo noi, infatti, quei “mercanti”, quando cerchiamo soluzioni di compromesso, di basso profilo, quando preferiamo la via facile e larga del “così fan tutti”, piuttosto che quella ripida e stretta dell’impegno corretto; siamo quei “cambiavalute”, quando facciamo sì la carità, ma in cambio di un tornaconto, di un utile, di un riconoscimento, pur sapendo che l’amore non è commerciabile, ma deve solo essere donato; siamo le “pecore”, quando ci comportiamo senza criterio, da irresponsabili, quando rinunciamo alla nostra identità, quando accettiamo passivamente di fare qualunque cosa ci venga proposta, male compreso; siamo i “buoi” quando, dimostrando esteriormente un’apparente mitezza, siamo al contrario testardi, ottusi, cocciuti, irremovibili dalle nostre posizioni; siamo infine le “colombe”, quelli cioè che saltellano di ramo in ramo, gli incostanti che non si fermano mai, che sono alla ricerca perenne di nuove emozioni: facciamo la “ruota” e “tubiamo” felici ad ogni nuovo proposito di migliorare, salvo poi abbandonarlo sistematicamente nel totale disinteresse.
Tutti questi elementi negativi, grazie al nostro orgoglio, trovano ampia libertà di azione nella nostra vita: noi infatti amiamo moltissimo esibirci, ostentare i nostri meriti, le nostre qualità, le nostre possibilità. Ci consideriamo troppo elevati, troppo superiori per abbassarci a compiere umili iniziative di volontariato, confinate nel silenzio, nella modestia, nel nascondimento.
Ebbene, in questa quaresima di conversione, armiamoci di ramazza, facciamo piazza pulita di tutte queste squallide icone che deturpano il “tempio” della nostra anima. Ripuliamolo a fondo questo nostro tempio: “cacciamo fuori”, come ha fatto Gesù, tutto ciò che schiavizza il nostro cuore; restituiamogli la sacralità, la grandezza, la bellezza che merita, e potremo tornare a vivere, finalmente, “liberi e immacolati” nell’Amore Infinito. Amen.




giovedì 22 febbraio 2018

25 Febbraio 2018 – II Domenica di Quaresima


«E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole…» (Mc 9,2-10).

Oggi il Vangelo cambia radicalmente ambiente. Domenica scorsa eravamo nel deserto, nella solitudine, nella fatica, nella tentazione, nel pericolo di fare scelte sbagliate. Oggi siamo invece in una situazione completamente opposta: la scena è dominata dalla luce, dalla gioia, dalla felicità, dalla pienezza: è come “toccare il cielo con un dito”. Domenica scorsa Gesù era solo, oggi è insieme a Pietro, Giacomo, Giovanni, gli amati discepoli. Lì la voce e la visione del maligno, qui la voce e la visione di Dio; lì la sofferenza, qui la gioia e la festa; lì il buio e le tenebre, qui tanta luce e il volto di Gesù trasfigurato nel sole. A un Gesù umano che “vive” le tentazioni come tutti noi, si contrappone un Gesù divino che rivela la sua vera natura. Che senso ha questo cambiamento così repentino, in una quaresima che noi continuiamo a interpretare ancora come un’esperienza triste, funerea, votata alla penitenza, ai sacrifici, alla preghiera continua? Cosa vuol dire?
La spiegazione sta nel messaggio che Gesù vuole trasmetterci proprio dal Tabor: Egli in sostanza vuole offrirci, già su questa terra, una piccola visione di quella che sarà la felicità futura, quella finale, paradisiaca, fatta di luce, di amore, di contemplazione divina. Ci dice praticamente che la quaresima non è tristezza, ma gioia, entusiasmo; che il nostro cammino di “conversione” deve essere fatto volentieri, con il sorriso, con la fiducia nel suo amore. Gesù in poche parole ci dice che la nostra vita può un giorno diventare radiosa solo se pratichiamo l’amore: perché solo l’amore potrà farci salire sul nostro Tabor eterno, dove regna la felicità, l’Amore, e farci trasfigurare nel contemplare quelle cose meravigliose che nessun occhio umano ha mai visto e mai potrà vedere.
Trasfigurazione: è a questo che ci porta l’amore; perché solo chi ama sinceramente, chi è perdutamente innamorato, può cogliere i particolari più belli, più intimi, più commoventi, della vita: come guardare il sole che si specchia sul volto radioso della persona amata, ammirare l’innocenza negli occhi spalancati di un bambino, apprezzare la vera saggezza attraverso le rughe di un vecchio, commuoversi di fronte ad un volto segnato dal dolore per la perdita di una persona cara, rimanere estasiati ammirando la muta grandiosità di un cielo stellato o il sorgere del sole dalle acque immobili del mare: sono momenti rari, magici, che ci trasmettono sensazioni così profonde, commozioni così intense, da non riuscire talvolta a trattenere le lacrime.
Una volta pensavo che commuoversi fosse segno di debolezza, di mancanza di virilità. Oggi so che vuol dire soltanto essere vivi: significa cioè percepire la nostra anima, chi siamo dentro; significa lasciarsi toccare il cuore, farsi coinvolgere da ciò che ci succede intorno; vuol dire non essere gelidi come il ghiaccio, impenetrabili come la roccia, insensibili come un organismo amorfo. Vuol dire lasciarsi “trasfigurare”.
La vita è piena di questi momenti di Trasfigurazione; per farne esperienza dobbiamo soltanto saperli “vedere”: momenti in cui ci rendiamo conto che vale la pena di vivere; momenti in cui ci sentiamo “speciali”, in cui siamo particolarmente felici di stare al mondo, di esistere, di amare, di credere, di donare; momenti che ci danno la forza e il coraggio di andare sempre avanti, di affrontare serenamente le “discese” dal monte, le croci, le crocifissioni di ogni giorno.
Senza queste ricariche di “Dio”, di soprannaturale, di infinito, tutto rimarrebbe drammatico, angoscioso, “nero”, invivibile. Ecco perché davanti a noi si ergono tanti Tabor: dobbiamo permettere alla luce, alla gioia di entrarci dentro; dobbiamo lasciare che la vita ci immerga, che viva in noi, che sussulti, che si muova, che rinasca continuamente.
“Tabor”, il monte della trasfigurazione e della felicità, in ebraico significa “ombelico”, come anche “principio di luce”. Bene: la nostra trasfigurazione ci impone di tagliare tutti i cordoni “ombelicali” che ci legano al superfluo, tutte quelle dipendenze inutili che ci ostacolano la crescita, che avvizziscono la vita. Se in questi giorni di quaresima non approfittiamo di recidere energicamente i nostri legami col male, convinti che tutto sommato la nostra vita non è poi così malvagia e che potremo comunque migliorarla quando decideremo di cambiare abitudini e stile, siamo soltanto dei poveri illusi, e soprattutto non arriveremo mai ad avere una vita “trasfigurata”. Insistere nel vivere situazioni negative, esperienze traumatizzanti che ci procurano solo dolore e disperazione, significa scegliere una fine già annunciata, una caduta nel nulla implacabile e devastante. Se vogliamo crescere, se vogliamo camminare spediti verso la luce, non possiamo lasciarci rallentare da zavorre pericolose, il nostro taglio deve essere netto, deciso e definitivo.
Solo il cordone ombelicale che ci lega a Dio non va mai reciso; anzi dobbiamo conservarlo gelosamente, dobbiamo proteggerlo costantemente con grande cura, perché per noi vuol dire salvezza, beatitudine, trasfigurazione; troncarlo, significa al contrario lontananza, condanna, perdizione. È l’unico canale attraverso cui Dio può riversare l’amore nel nostro cuore. Un canale che, per quanto in basso possiamo cadere, ci terrà sempre uniti a Lui, e non correremo mai il pericolo di perderci nel vuoto”. Solo così potremo andare serenamente ovunque la vita ci porti, anche verso le sue inevitabili “prove”; solo così potremo affrontare i momenti più duri e difficili: perché dentro di noi abbiamo sempre nuova energia, nuova forza, nuovo entusiasmo: abbiamo cioè Dio-Amore che abita nel nostro cuore; allora possiamo esclamare felici con Pietro: “Signore, è proprio bello per noi stare qui con te”. Ma anche allora, siamo del tutto sinceri? Per noi noi è veramente bello stare con Dio, estasiarci di Lui nel silenzio della nostra casa, oppure in Chiesa, nei momenti di preghiera e di meditazione, nella Messa, nelle sacre liturgie? Oppure il nostro è solo l’entusiasmo stanco di chi si trascina dietro abitudini senza vita, senza passione? Ebbene, la quaresima è il tempo degli esami, è il tempo ideale per ritagliarci degli spazi di silenzio, per darci delle risposte sincere, per dedicare più tempo a Dio, per rimettere la nostra vita in sintonia con Lui.
Per farlo, come ci ordina la Voce del vangelo di oggi, dobbiamo “ascoltare”.
Dobbiamo “ascoltare” il Figlio, ascoltare la sua Parola, ascoltare noi stessi, ascoltare ciò che di bello, di divino, hanno da dirci gli uomini nostri fratelli, la natura, il creato, la vita. Dobbiamo imparare ad ascoltare Dio attentamente: è da questo che dobbiamo ripartire.
Purtroppo noi oggi viviamo in un mondo in cui i valori inalienabili della vita sono calpestati impunemente, abbandonati nel disinteresse più totale; il mondo, la natura, la società, lontani da Dio, sono ormai allo sbando: orrende sono le nostre città, orrende sono le periferie, orribili sono le ideologie che imperversano, orribili le proposte martellanti e sguaiate della pubblicità, orribile il linguaggio che ci raggiunge dal mondo della politica, dello spettacolo, dell’informazione, orribili sono i nuovi stili di vita.
È proprio vero: abbiamo urgente bisogno di “trasfigurazione”, ma di quella vera, autentica, divina; ciascuno di noi ha assoluto bisogno della bellezza unica di Dio, che è Verità, Vita, Amore.
Non esiste al mondo alcun chirurgo estetico, alcuna ricchezza, che sappiano trasformarci in persone altrettanto “belle”! Solo noi possiamo raggiungere quella bellezza assoluta, quella bellezza interiore che ci deriva dalla somiglianza con Dio, somiglianza che ci nobilita e ci trasfigura divinamente. Se non siamo immagine di Dio, assomigliamo soltanto a freddi, duri e infelici pagliacci, che si affannano a vivere senz’anima, senza luce, senza calore, senza amore. Amen.